RIHA Journal 0337 | 18 December 2025

Napoli come Weltlandschaft

Modelli mediatici e paragone intermediale nella veduta di Napoli disegnata da Jan van Stinemolen

Adrian Bremenkamp

Abstract
Stinemolen's panorama of Naples reverses the traditional representation model by showing the city as seen from the countryside. It stages a view of the city, the sea, and the horizon framed by repoussoirs. This article identifies the Dutch Weltlandschaft ("world landscape") and the inventions of the Danube school, particularly the paintings and prints of Albrecht Altdorfer, as the medial preconditions for this novel image creation, which also exhibits affinities with contemporary literary preconceptions of the view of the city, as documented in Giovanni Tarcagnota's Del sito, et lodi della città di Napoli (1566). The unusual ambition of Stinemolen's panorama of Naples can be better understood when compared with Anton van den Wyngaerde's drawing of Naples and his series of depictions of Spanish cities commissioned by Philip II, which were probably created as templates for a printed city atlas. Stinemolen and his patron may have been planning a large-format print similar to Wyngaerde's engraving of Genoa. Regardless of this presumed practical function, Stinemolen attempts to emulate the atmospheric effects of landscape painting in the medium of drawing without abandoning the claim to topographical precision and accurate representation of individual buildings. The conflicting demands of cartographic and landscape representation thus appear to be dialectically absorbed in the virtuosity of the drawing. The result is the creation of a larger-than-life visual experience that offers a view of the city impossible to capture from any specific, actual location on Naples's periphery.


1 Jan van Stinemolen, Panorama di Napoli, 1582, disegno su carta, 462 × 1219 mm, Albertina, Vienna,
inv. 15444 (immagine: © Albertina, Vienna; applicazione web: Bibliotheca Hertziana – MPI, Roma)

[1] Il panorama urbano elaborato da Jan van Stinemolen (fig. 1) si configura come una veduta incorniciata da scoscese alture, le cui pendici, risalendo ai margini laterali della composizione, fanno sì che gli alberi ivi collocati oltrepassino il limite superiore del foglio. L'osservatore è idealmente situato su una collina ricoperta da fitta vegetazione, dalla quale tuttavia non si scorge alcun tracciato che conduca direttamente verso la valle. L'ampia zona in ombra in primo piano svolge la funzione di repoussoir, fungendo da elemento di raccordo e da varco visivo verso il fulcro iconografico dell'opera, ossia la città. Oltre le mura, il paesaggio appare più tenue, progressivamente sfumato, sino a dissolversi in lontananza all'orizzonte. Tale organizzazione compositiva, che articola la profondità mediante il netto contrasto tra l'oscurità del primo piano e la graduale rarefazione delle forme sullo sfondo, trova riscontri nella tradizione pittorica fiamminga sin da Jan van Eyck.1 La collocazione del punto di vista in una zona liminare – sospesa fra montagna e valle, selva e cielo, ombra e luce – conferisce all'immagine un potenziale narrativo, che lo spettatore è chiamato ad attualizzare: si potrebbe, ad esempio, immaginare di trovarsi al termine di un lungo percorso e di ricevere, come ricompensa, la contemplazione del panorama della città. Nondimeno, l'esperienza percettiva qui offerta si rivela costruzione artificiosa e sofisticata, giacché la veduta è il risultato della giustapposizione di almeno tre diversi punti di osservazione, con conseguenti difficoltà nella restituzione delle effettive condizioni topografiche.2 L'orizzonte, tracciato lungo una linea accentuatamente curva, non corrisponde a una percezione ottica naturale, ma intensifica l'impressione di vastità, suggerendo la visione di un frammento del globo terrestre. In tal modo, il panorama di Napoli viene elevato a "paesaggio del mondo" (Weltlandschaft), categoria sfuggente e polisemica, assimilabile a un paesaggio panoramico investito di significati simbolici, riconducibile ai modelli inaugurati da Joachim Patinir nei primi decenni del XVI secolo (fig. 2).3

[2] I paesaggi di Patinir, infatti, strutturano lo spazio mediante una successione di piani sovrapposti, che si elevano gradualmente, e attraverso un uso sistematico della prospettiva aerea, con tonalità azzurrine via via più intense, senza tuttavia ricorrere alla curvatura dell'orizzonte. Quest'ultima si manifesta, in maniera del tutto inedita, nella Battaglia di Alessandro di Albrecht Altdorfer, opera terminata nel 1529 (fig. 3). In questo dipinto la parte inferiore è occupata dalla narrazione dettagliata dello scontro, mentre quella superiore accoglie una sorprendente descrizione geografica nella quale si può identificare una stretta fascia costiera in Cilicia vicino all'antica città marinara di Isso sulla costa centro-meridionale dell'Asia Minore, combinata con una vista sul Mediterraneo orientale su Cipro, sul Mar Rosso, sull'Africa con il delta del Nilo a sette bracci e sul Golfo di Sidra.4 Con un intento diverso, ovvero – in breve – quello di esprimere in modo vivido l'importanza mondiale della battaglia di Isso tra Macedoni e Persiani (333 a. C.), e mediante una retorica figurativa drammaticamente accentuata che mette in relazione diretta storia e geografia, anche qui il luogo raffigurato appare come un frammento del globo terrestre.

2 Joachim Patinir, Paesaggio con San Girolamo, ca. 1516–1517, olio su tavola, 74 × 91 cm, Museo Nacional del Prado, Madrid, inv. P001614 (immagine: © Museo Nacional del Prado, Madrid)

3 Albrecht Altdorfer, Battaglia di Alessandro, 1529, olio su tavola, 158 × 120 cm, Bayerische Staatsgemäldesammlungen – Alte Pinakothek, Monaco di Baviera, inv. 688 (immagine: © BStGS, Monaco di Baviera)

[3] La curvatura dell'orizzonte nel panorama napoletano di Stinemolen riprende quindi una formula compositiva già attestata nella pittura storica di Albrecht Altdorfer. Il riferimento all'artista tedesco e, più in generale, alla produzione grafica paesaggistica della Scuola danubiana si manifesta con evidenza anche a livello iconografico, in particolare nella resa del repoussoir collocato nella zona inferiore e ai margini laterali della composizione. In questo contesto Stinemolen sembra aver elaborato suggestioni riconducibili, ad esempio, alla celebre acquaforte di Altdorfer nota come Grande abete rosso (fig. 4).5 Le invenzioni altdorferiane, ampiamente recepite dalla tradizione successiva, trovano riscontro non soltanto nella configurazione dell'albero disposto sul margine destro del foglio, ma soprattutto nell'attenzione minuziosa rivolta al dettaglio naturalistico: la corteccia fessurata, il profilo inciso del tronco da cui dipartono esili ramoscelli, i ciuffi d'erba che circondano la base, le radici che penetrano nel terreno (fig. 5). Tuttavia, ancor più significativa è la ripresa dell'idea di utilizzare un albero in primo piano, troncato dal bordo superiore dell'immagine, quale elemento di repoussoir, contrapposto all'ampio paesaggio retrostante. Tale soluzione, già sperimentata da Altdorfer, viene qui adottata da Stinemolen con consapevolezza, innestandosi su una tradizione iconografica di lunga durata.6

[4] Tuttavia, il disegno monumentale di Stinemolen (462 × 1219 mm) rivela un intento distinto rispetto agli esempi sinora considerati. Al centro della composizione si impone il panorama della città, le cui mura si estendono sino al margine inferiore del foglio. L'intera veduta è sottoposta a un'impostazione formale fortemente ordinata, fondata sull'incastro di strutture semicircolari – il repoussoir, la cinta muraria, il profilo del Golfo – che articolano lo spazio. I piani non si dissolvono gradualmente l'uno nell'altro, ma risultano nettamente distinti: i loro contorni irregolari e sporgenti emergono infatti grazie a zone di carta lasciate in bianco, che ne accentuano la leggibilità.7 In tal modo, la ricchezza analitica del dettaglio non compromette la chiarezza dell'insieme, bensì si inserisce in una rigorosa organizzazione visiva. Questa struttura, di per sé severa, è mitigata dal progressivo attenuarsi della nitidezza dei contorni e dalla diminuzione dell'intensità del contrasto tra primo piano e sfondo. L'effetto è ottenuto attraverso l'impiego differenziato di strumenti e tecniche grafiche: nelle zone prossime all'osservatore la linea è tracciata con penna larga, capace di trattenere e rilasciare una quantità considerevole d'inchiostro; nello sfondo intermedio la linea si assottiglia, mentre nelle porzioni più lontane il segno si spezza in sequenze di punti o in tratti leggerissimi, realizzati con una penna sottilissima e talvolta con inchiostro diluito, appena percettibile sul supporto. A ciò si aggiungono leggere velature che ammorbidiscono le pendici montuose sullo sfondo o le facciate in ombra delle case in secondo piano.8 Grazie a tali accorgimenti, il disegno raggiunge un notevole effetto atmosferico, idoneo a restituire l'ampiezza e la profondità del panorama del Golfo. Tale coerenza formale risulta tuttavia parzialmente compromessa dalle formazioni nuvolose che occupano la parte superiore della composizione. La loro esecuzione suggerisce l'intervento di una mano diversa, forse attiva in epoca tarda, verosimilmente nel XVIII secolo. Ciò impone un'analisi puntuale del ductus: mentre nei tratti originali, ad esempio nella resa dei pendii, le linee sono stese con rapidità e sicurezza per modellare volumi concavi e convessi (fig. 6), i segni relativi alle nubi appaiono più incerti e meno efficaci nel suggerire tridimensionalità. Perfino al centro, dove le linee curve intendono raffigurare un addensamento vaporoso, il risultato rimane sostanzialmente piatto, contravvenendo all'intento di contrapporre in modo drammatico la città e lo scenario celeste (fig. 7). Seguendo invece la logica estetica interna all'opera – fondata sulla progressiva dissoluzione della forma dal primo piano allo sfondo – il cielo avrebbe trovato la sua espressione più congrua su un fondale intatto, privo di interventi grafici. In tal caso, la luminosità assoluta del cielo, contrapposta alla condizione di controluce in primo piano e incorniciata dai due alberi che si protendono oltre la linea curva dell'orizzonte, avrebbe accentuato la tensione visiva e drammatica della scena (cfr. fig. 8).

4 Albrecht Altdorfer, Grande abete rosso, ca. 1517–1520, acquaforte, 234 × 178 mm, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett, Berlino, inv. 131-1929 (immagine: SMB, Kupferstichkabinett / Jörg P. Anders)

5 Jan van Stinemolen, Panorama di Napoli, 1582, disegno su carta, 462 × 1219 mm, Albertina, Vienna, inv. 15444, dettaglio del repoussoir in alto a destra da applicazione web (immagine: © Albertina, Vienna; applicazione web: Bibliotheca Hertziana – MPI, Roma)

6 Jan van Stinemolen, Panorama di Napoli, 1582, disegno su carta, 462 × 1219 mm, Albertina, Vienna,
inv. 15444, dettaglio del repoussoir in basso a sinistra da applicazione web (immagine: © Albertina, Vienna; applicazione web: Bibliotheca Hertziana – MPI, Roma)

7 Jan van Stinemolen, Panorama di Napoli, 1582, disegno su carta, 462 × 1219 mm, Albertina, Vienna, inv. 15444, dettaglio delle nuvole in alto al centro (immagine: autore)

8 Immagine manipolata digitalmente di Jan van Stinemolen, Panorama di Napoli, 1582, disegno su carta, 462 × 1219 mm, Albertina, Vienna, inv. 15444, senza nuvole, cancellate tramite ritocco digitale (immagine: autore)

[5] L'obiettivo perseguito da Stinemolen sembra consistere nella ricreazione, attraverso il disegno, di un effetto atmosferico comparabile a quello di un dipinto, senza tuttavia sacrificare la precisione topografica né la meticolosità del dettaglio. La Veduta del porto di Napoli di Pieter Bruegel il Vecchio offre un esempio paradigmatico delle possibilità espressive della pittura paesaggistica contemporanea, in termini di resa luminosa suggestiva, integrazione armoniosa della città nel contesto naturale ed evocazione di un'ampiezza atmosferica di grande impatto (fig. 9).9

9 Pieter Bruegel il Vecchio, Veduta del porto di Napoli, ca. 1560–1570, olio su tavola, 40 × 70 cm, Galleria Doria Pamphilij, Roma, inv. FC 546 (immagine: © Galleria Doria Pamphilij, Roma)

Nella rappresentazione bruegeliana, l'accuratezza topografica è subordinata ai principi estetici e agli effetti pittorici; al contrario, Stinemolen mira a un equilibrio tra queste due esigenze, reso possibile dal formato notevolmente più ampio del disegno e dalla precisione insuperabile che solo la tecnica della penna consente di ottenere. Tale paragone intermediale, che nel disegno di Stinemolen assume valenza tematica, viene elevato a vero e proprio soggetto pittorico nelle pen-wercken di Hendrick Goltzius, realizzate circa venti anni più tardi, con opere come Sine Cerere et Libero friget Venus.10 In esse, il minuzioso disegno a penna su tela di grande formato sostituisce la pittura a olio, imitando contemporaneamente il tratto incisorio, a sottolineare l'ineguagliabile virtuosismo dell'artista, seppure con soggetti di natura completamente diversa.11 Tematicamente più prossimi all'opera di Stinemolen risultano invece i penschilderijen del XVII secolo, incentrati su scene marine e tradizionalmente attribuiti a Willem van der Velde il Vecchio.12 Pur senza postulare uno sviluppo lineare, è evidente come la generazione immediatamente successiva a Stinemolen attribuisca esplicita centralità al potenziale di imitazione intermediale del disegno. Nonostante la scarsità di documentazione, un confronto diretto con Stinemolen come disegnatore è suggerito da una lettera di Joris Hoefnagel ad Abraham Ortelius, editore del Theatrum Orbis Terrarum, datata 20 settembre 1593. Nella missiva, Hoefnagel riferisce del suo constbouck, una raccolta di 300 disegni dei maestri più rilevanti, e richiede a Ortelius ulteriori opere, in particolare un foglio di "van Steinemeulen", di cui non possedeva alcun esemplare.13 L'assenza di un disegno di Stinemolen rappresentava, evidentemente, per Hoefnagel la lacuna più significativa nella sua collezione.

[6] Il confronto con le numerose vedute realizzate da Anton van den Wyngaerde, pressoché coeve a quella di Stinemolen, consente di definire con maggiore precisione le peculiarità della rappresentazione napoletana dell'artista. La veduta di Napoli di Wyngaerde mostra la città dal mare, adottando un punto di osservazione insolitamente basso (fig. 10).14 Per questo motivo appare più pertinente il raffronto con la veduta di Valencia del 1563 (fig. 11), che suggerisce di esser stata eseguita da un'alta torre analoga a quella raffigurata in primo piano a destra.15

10 Anton van den Wyngaerde, Veduta del porto di Napoli, ca. 1546–1550, disegno su carta, 210 × 910 mm, Ashmolean Museum, Oxford, inv. WA.Suth.B.2.328.2 (immagine: © Ashmolean Museum, University of Oxford)

11 Anton van den Wyngaerde, [Civitas] Valenciae, 1563, disegno su carta, 425 × 1412 mm, Österreichische Nationalbibliothek, Vienna, Cod. Min. 41, fol. 1 (immagine: © ÖNB, Vienna, 2025)

In tale immagine Wyngaerde struttura la composizione secondo una marcata diagonale ascendente, lungo la quale si snoda una strada intensamente trafficata che guida lo sguardo dell'osservatore verso il centro urbano, attraverso il Puente de Serranos e la porta monumentale, emblema stesso della città. La Napoli di Stinemolen si configura invece come meno accessibile, essendo rappresentata da un punto di vista che ne mostra, per così dire, il retro. L'unico varco visibile, rivolto verso l'osservatore, non mostra caratteri ornamentali rilevanti, né risulta allineato con i decumani che scandiscono l'asse centrale della città. Nel 1582 la porta doveva essere soltanto un'apertura irregolare delle mura, un pertuso, che agevolava l'accesso agli abitanti delle colline circostanti, e venne monumentalizzata come Porta Medina soltanto nel 1640.16 La possibilità che tale porta fosse raggiungibile dal punto di osservazione è suggerita unicamente dalla disposizione terrazzata del terreno sulla destra e dalla sequenza di figure itineranti che, come un tracciato indiziario, conducono lo sguardo fino all'ingresso dal margine destro della veduta. L'immagine restituisce una città sostanzialmente priva di vita interna; solo nello specchio del Golfo è possibile cogliere indizi di attività, grazie alla presenza di imbarcazioni. Un ulteriore confronto con la veduta napoletana di Wyngaerde (fig. 10), fedele alla prospettiva canonica dal mare inaugurata dalla Tavola Strozzi, rende evidente come quest'ultimo metta in scena il molo animato quale punto d'accesso privilegiato alla città, con un percorso che si snoda a destra del Castelnuovo e delle sue fortificazioni. Al contrario, Stinemolen propone una Napoli concepita come organismo chiuso e autosufficiente, la cui immagine è costruita non come rappresentazione di un luogo vissuto, bensì come oggetto di fruizione estetica.

[7] Una valutazione analoga della città e del suo territorio osservati a distanza si rintraccia nelle pagine introduttive dell'opera Del sito, et lodi della città di Napoli (1566) di Giovanni Tarcagnota, encomio letterario della città e, al contempo, trattato storico articolato in forma dialogica.17 Pur trattandosi di un mezzo di comunicazione testuale fondato su presupposti radicalmente diversi, è possibile individuare significative analogie concettuali tra la rappresentazione verbale e quella figurativa, senza per questo appiattire le specificità proprie dei due linguaggi.18 Già la battuta iniziale del padrone di casa – nella cui villa, situata sopra la città, tre nobili si ritrovano per un convivio colto – incoraggia un simile confronto: "Vedeste mai per vita vostra la più bella prospettiva di questa? Se si vedesse ritratta in uno di questi quadri di Fiandra, chi non direbbe, che questa fosse la più delicata cosa del mondo?"19 La veduta di Napoli è qui introdotta come un dipinto e, più precisamente, la sua bellezza è misurata secondo la sua dignità pittorica; i quadri fiamminghi sono assunti a modello esemplare di tale qualità. L'accento viene posto sulla moltiplicazione dei dettagli in vista – case, alberi, increspature marine – ciascuno dotato di intrinseco interesse figurativo, che lo spettatore può contemplare comodamente da lontano e percorrere con lo sguardo. Questa distanza, oltre a essere fisica, assume una valenza estetica, configurandosi come condizione privilegiata per la fruizione visiva.20 Nella descrizione successiva del sito, l'immagine del theatro assume una funzione centrale. Essa richiama, da un lato, la metafora del sapere tipica della cultura moderna; dall'altro, rimanda a un'analogia formale concreta, giacché la struttura semicircolare del teatro trova corrispondenza nella configurazione del paesaggio (fig. 1).21 Sulle alture, un primo semicerchio si distende dal "monte di santo Hermo" (Castel Sant'Elmo) al "monte di Somma" (Vesuvio),22 mentre lungo la linea costiera un secondo arco si snoda da Miseno al "Capo di Minerva" (Punta Campanella).23 L'organizzazione della veduta di Napoli e dei suoi dintorni secondo una sequenza di semicerchi costituiva dunque un'idea già nota alla trattatistica coeva, la quale era del resto consapevole di riprendere un topos di origine classica.

[8] Indipendentemente dalla possibilità di stabilire un rapporto diretto tra il panorama semicircolare di Stinemolen e il trattato di Tarcagnota, è opportuno sottolineare come la percezione della città risultasse influenzata tanto dai topoi letterari di ascendenza classica quanto dalla coeva tradizione fiamminga della pittura paesaggistica. Il disegno di Stinemolen sembra riprendere consapevolmente il paragone con la pittura ed emularne gli effetti attraverso il mezzo grafico. Parallelamente, tuttavia, l'artista rimane fedele a una rigorosa precisione topografica, che avvicina la sua veduta alle rappresentazioni cartografiche fondate sulla misurazione diretta del terreno, ambito nel quale egli dimostra una particolare perizia. L'ipotesi che la rinuncia al colore e l'esibizione di virtuosismo grafico costituissero un tema centrale per Stinemolen trova riscontro nella prassi di Wyngaerde, il quale, pur avendo spesso colorato le proprie vedute urbane, affrontò esplicitamente la questione cromatica nella didascalia della sua veduta a stampa di Genova del 1553 (fig. 12). In tale contesto, "la descrittione di luochi" è elevata a compito più arduo della pittura, e si prospetta una resa della città ancora più persuasiva e vivace qualora essa fosse stata illustrata a colori dalla stessa mano che l'aveva disegnata e incisa.24 Alla luce di ciò, anche il panorama di Stinemolen può essere interpretato all'interno del discorso sul virtuosismo dell'artista legato alla riduzione dei mezzi espressivi: pur rinunciando al colore, l'opera ambisce a fornire una rappresentazione al contempo vivida e convincente di Napoli, inscritta nel contesto di un più ampio paesaggio del mondo.

12 Anton van den Wyngaerde, Civitas Genuae, 1553, acquaforte, 445 × 1665 mm, Kungliga Biblioteket, Stoccolma, inv. KoB DelaG E. 64 (immagine: © National Library of Sweden, Stoccolma)

[9] I cinquantatré ritratti di città spagnole eseguiti da Anton van den Wyngaerde a partire dal 1562 su incarico di Filippo II consentono di trarre alcune considerazioni sulla funzione del panorama di Stinemolen, unico esemplare a noi pervenuto.25 Ciascuna delle vedute di Wyngaerde fu preceduta da una serie di schizzi preliminari, realizzati in loco, che documentano porzioni urbane da differenti angolazioni o ne abbozzano l'assetto topografico complessivo.26 Da tali materiali preparatori scaturivano, in una seconda fase, vedute d'insieme della città, spesso concepite da un punto di vista artificiale; esemplare, in tal senso, è la già menzionata veduta di Valencia (fig. 11), per la quale si conservano sei disegni preparatori.27 Tutti gli indizi portano a supporre che anche Stinemolen abbia seguito un procedimento analogo, benché non siano giunti fino a noi disegni preparatori relativi alla sua veduta di Napoli.28 Il prodotto finale, tuttavia, si distingue sensibilmente dalle vedute di Wyngaerde, destinate con ogni probabilità a confluire in un atlante delle città spagnole, progetto che – come attestato – fu promosso intorno al 1587 dall'editore anversano Christoph Plantin.29 Le opere di Wyngaerde, infatti, risultano riccamente corredate da annotazioni scritte: identificazioni degli edifici in vista di una legenda, spiegazioni più articolate di singoli monumenti, osservazioni sulla morfologia del terreno o sulle distanze. Nei disegni finiti compaiono inoltre costantemente la rosa dei venti, il nome della città e lo stemma civico. La presenza di retinature in quindici vedute completate dimostra, peraltro, che esse erano state predisposte per la riproduzione a stampa.30 Di segno opposto è il panorama di Stinemolen, privo di qualsiasi apparato tecnico: nemmeno la firma e la data, aggiunte probabilmente in un secondo momento, sembrano appartenere al progetto originario.31 Tutto ciò induce a interpretarlo come un manufatto concepito per il collezionismo o per la fruizione espositiva, il cui intento era quello di emulare tanto la tradizione pittorica quanto quella cartografica, al fine di simulare un'esperienza estetica della città e, nello stesso tempo, di superare artisticamente qualsiasi percezione diretta della realtà urbana.32

Reviewers
Anonymous

Local Editor
Susanne Kubersky-Piredda, Bibliotheca Hertziana – Max Planck Institute for Art History, Rome

Copyediting
Michela Corso, Rome

Translation
Simone Crestanello for Alphaville traduzioni e servizi editoriali, Vicenza

Special Issue
Tanja Michalsky and Adrian Bremenkamp, guest eds., Napoli dalle colline: città e campagna, cultura e natura nella veduta di Jan van Stinemolen (1582), in: RIHA Journal 0335-0341 (18 December 2025), DOI: https://doi.org/10.11588/riha.2025.3.

License
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1 Cfr. Hans Belting e Dagmar Eichberger, Jan van Eyck als Erzähler: frühe Tafelbilder im Umkreis der New Yorker Doppeltafel, Worms 1983, 129-131. Esemplificativi in tal senso sono, tra gli altri, la Crocifissione nelle Ore di Torino, 48v, la tavola della Crocifissione vicina ai modi di van Eyck, conservata alla Ca' d'Oro di Venezia, e la tavola della Crocifissione del Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid (nota come ex Crocifissione Henschel), attribuita a un anonimo artista valenciano.

2 Cfr. inoltre il contributo di Stefano D'Ovidio in questo volume, DOI: https://doi.org/10.11588/riha.2025.3.113740.

3 Per il concetto di Weltlandschaft, sviluppatosi nella storia dell'arte intorno al 1900, cfr. Detlef Zinke, Patinirs 'Weltlandschaft'. Studien und Materialien zur Landschaftsmalerei im 16. Jahrhundert, Francoforte sul Meno 1977 (= Europäische Hochschulschriften, Reihe 28: Kunstgeschichte, 6), in particolare 11-29; si vedano anche Tanja Michalsky, Projektion und Imagination. Die niederländische Landschaft der Frühen Neuzeit im Diskurs von Geographie und Malerei, Monaco di Baviera 2011, 218-227. Per quanto concerne la dimensione religiosa di questo tipo di rappresentazione paesaggistica, in particolare in Patinir, cfr. Reindert L. Falkenburg, Joachim Patinir: Landscape as an Image of the Pilgrimage of Life, Amsterdam/Philadelphia 1988.

4 Margit Stadlober, Der Wald in der Malerei und Graphik des Donaustils, Vienna 2006, 276. Per la Battaglia di Alessandro si veda inoltre: Cord Meckseper, "Zur Ikonographie von Altdorfers Alexanderschlacht", in: Zeitschrift des Deutschen Vereins für Kunstwissenschaft 22 (1968), 179-185; Joseph Harnest, "Zur Perspektive in Altdorfers Alexanderschlacht", in: Anzeiger des Germanischen Nationalmuseums (1977), 67-77; Barbara Eschenburg, "Altdorfers Alexanderschlacht und ihr Verhältnis zum Historienzyklus Wilhelms IV.", in: Zeitschrift des Deutschen Vereins für Kunstwissenschaft 33 (1979), 36-67; Wolfgang Pfeiffer, "Zur Ikonographie der Alexanderschlacht Albrecht Altdorfers", in: Münchner Jahrbuch für bildende Kunst 44 (1993), 72-97; Gisela Goldberg, Die Alexanderschlacht und die Historienbilder des bayerischen Herzogs Wilhelm IV. und seiner Gemahlin Jacobaea für die Münchner Residenz, Monaco di Baviera 1983 (= Künstler und Werke, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, 5); Volkmar Greiselmayer, Kunst und Geschichte: Die Historienbilder Herzog Wilhelms IV. von Bayern und seiner Gemahlin Jacobäa – Versuch einer Interpretation, Berlino 1996, 19-60.

5 Hans Mielke, a cura di, Albrecht Altdorfer: Zeichnungen, Deckfarbenmalerei, Druckgraphik, cat. mostra, Berlino 1988, cat. n. 123, 234.

6 Al Grande abete rosso si possono affiancare numerosi altri disegni di Altdorfer, nonché opere di Wolf Huber. Per un quadro completo sulla produzione dei due artisti si veda: Max J. Friedländer, Albrecht Altdorfer, Berlino 1923; Peter Halm, "Die Landschaftszeichnungen des Wolf Huber", in: Münchner Jahrbuch der Bildenden Kunst 7 (1930), 1-104; Martin Weinberger, Wolfgang Huber, Lipsia 1930; Erwin Heinzle, Wolf Huber, um 1485–1553, Innsbruck 1953; Franz Winzinger, "Albrecht Altdorfer und sein Kreis", in: Otto Wutzel, a cura di, Die Kunst der Donauschule, 1490–1540, Linz 1965, 35-88; Franz Winzinger, Wolf Huber. Das Gesamtwerk, Monaco di Baviera 1979; Mielke (1988), 227-239; Christopher S. Wood, Albrecht Altdorfer and the Origins of Landscape, Londra 1993, 234-282.

7 La netta separazione tra le mura cittadine e l'area circostante, realizzata attraverso una fascia non edificata e priva di vegetazione, rispecchia il divieto di costruzione lungo le mura, reiteratamente previsto in seguito al forte aumento della popolazione a metà del XVI secolo (era richiesta una distanza di 200 canne davanti e di 30 canne all'interno delle mura, prescrizione ribadita nuovamente nel 1566). Cfr. Franco Strazzullo, "Un descrittore della Napoli del '500: Giovanni Tarcagnota", in: Atti della Accademia Pontaniana 38 (1989), 131-140: 133. Tuttavia, la conferma di questo divieto potrebbe indicare che la cinta muraria non fosse completamente libera da edifici, sottolineando così il carattere idealizzato e costruito del panorama di Stinemolen.

8 Altre aggiunte, quali il fogliame, le figure umane e le imbarcazioni, sono realizzate prevalentemente con un inchiostro di tonalità più brunastra, ma sembrano eseguite dalla medesima mano, fatta eccezione per una porzione grigia sul bordo destro del disegno.

9 Tanja Michalsky, "'La più delicata cosa del mondo'. Pieter Bruegel's Bay of Naples", in: Tine Luk Meganck e Sabine van Sprang, a cura di, Bruegel & l'Italia / Bruegel and Italy. Proceedings of the International Conference held in the Academia Belgica in Rome, 27–28 September 2019, Lovanio, ecc. 2023, 139-162.

10 Lawrence W. Nichols, The Paintings of Hendrick Goltzius, 1558–1617: A Monograph and Catalogue Raisonné, Doornspijk 2013, cat. n. A-31 e A-32, 131-136.

11 Questa modalità di assimilazione e di reinterpretazione della tradizione pittorica fu immediatamente recepita dalla letteratura artistica; nel celebre Schilder-Boeck di Karel van Mander, Goltzius viene infatti stilizzato come Proteo. Cfr. Walter S. Melion, "Love and Artisanship in Hendrick Goltzius's Venus, Bacchus and Ceres of 1606", in: Art History 16, 1 (1993), 60-94: 62-70.

12 Cecil King, "Penschilderijen. A Seventeenth-Century Craft", in: The Connoisseur 104 (1939), n. 457, 138-145.

13 "Ick gae voert in het vergaderen van deseignen in mijnen constbouck, arriuerende wel tot 300. meesters handen al goede ende principale, Ick verstae ende wete dat v l. wel gestoffert is van sulcx ende specialycken van Steinemeulen daer ick nijet van en hebbe, die studie behoeft vrienden hulpe", John Henry Hessels, a cura di, Abrahami Ortelii Geographi Antverpiensis […] Epistulae, Cambridge 1887, doc. 239, 566-567. Cfr. a questo proposito il contributo di Martin Raspe in questo volume, DOI: https://doi.org/10.11588/riha.2025.3.113742.

14 Christopher Lloyd e Giulio Pane, "Three Views of Naples in Oxford and Cambridge", in: Napoli nobilissima 18 (1979), 148-154; Ryan E. Gregg, City Views in the Habsburg and Medici Courts: Depictions of Rhetoric and Rule in the Sixteenth Century, Leida, ecc. 2019, 95, nonché 95-120 sulle vedute romane, che per motivi di spazio non sono state incluse nella presente analisi.

15 Il punto di vista dell'osservatore è fittizio. Wyngaerde ha costruito la veduta utilizzando numerosi studi preliminari. Cfr. Richard L. Kagan, a cura di, Spanish Cities of the Golden Age: The Views of Anton van den Wyngaerde, Berkeley 1989, 200-204. Il metodo di lavoro di Wyngaerde è stato ricostruito da Egbert Haverkamp-Begemann, "The Spanish Views of Anton van den Wyngaerde", in: Master Drawings 7 (1969), 375-399, 438-450: 379-394.

16 Cfr. i contributi di Stefano D'Ovidio e Antonino Tranchina in questo volume, DOI: https://doi.org/10.11588/riha.2025.3.113740 e DOI: https://doi.org/10.11588/riha.2025.3.113741.

17 Giovanni Tarcagnota, Del sito, et lodi della città di Napoli […], Napoli 1566, libro 1, 1v-4r. Cfr. la ristampa di Giovanni Tarcagnota 1566 sotto il titolo La città di Napoli dopo la rivoluzione urbanistica di Pedro di Toledo, a cura di Franco Strazzullo, Napoli 1988. Cfr. il contributo di Stefano D'Ovidio in questo volume, DOI: https://doi.org/10.11588/riha.2025.3.113740.

18 Michalsky (2023), 152-157.

19 Tarcagnota (1566), 2v. Cfr. Strazzullo (1989); Vincenzo Caputo, "'A guisa di un bel teatro': la Napoli dello storiografo Giovanni Tarcagnota", in: Pasquale Sabbatino, a cura di, Il viaggio a Napoli tra letteratura e arti, Napoli 2012 (= Viaggio d'Europa, 20), 175-194; Tanja Michalsky, "Die Stadt im Buch. Die Konstruktion städtischer Ordnung am Beispiel frühneuzeitlicher Beschreibungen Neapels", in: Martina Stercken e Ute Schneider, a cura di, Urbanität. Formen der Inszenierung in Texten, Karten, Bildern, Colonia 2016, 105-131: 124-126, anche in traduzione italiana: Tanja Michalsky, "La città nel libro: la costruzione dell'ordine urbano nelle descrizioni di Napoli della prima età moderna", in: Tanja Michalsky, Napoli in scala. Le rappresentazioni della città (XIV–XXI secolo). Saggi scelti su pratiche e media, a cura di Adrian Bremenkamp, Anna Magnago Lampugnani e Elisabetta Scirocco, Milano 2024, 59-79.

20 Tarcagnota (1566), 2v-3r.

21 "La città è situata, & formata, come vedete, à guisa di un bel theatro, insieme con questi ameni colli, che alle spalle le sono, & che la circondano da questa parte. […] Questa bella forma di semicircolo, che fa la città co' colli, & con la curvita istessa del lito, si vede assai chiaramente da chi sopra un legno si ritirasse sul porto in mare", Tarcagnota (1566), 3r-3v.

22 Tarcagnota (1566), 3r.

23 "Non havete voi letto medisimamento quello, che presso gli antichi scrittori si legge di questo bel golfo; cio è, che il semicircolo, che esso fa andando con le sue punte à finere da una parte à Miseno, dall'altra al Capo di Minerva, che ha l'isola di Capre di fronte", Tarcagnota (1566), 4v.

24 "Fra tutti quei piaceri che la delettevole & artificiosa pittura ha in se no[n]/ v'ce nisuna che piu io stimi: che la descrittione di luochi: conciosa che/ la non debba solame[n]te cognoscere la proportione humana, anzi de cogno/scere la perspectiva, scultura, & architectura, per saper rilevare le altezze/ delli mo[n]ti, la dipressio[n]e delli valloni, l'u[m]braggi di grotte, la fertilita delle ca[m]pi/ & l'u[n]de delle fiumare torre[n]ti & della marina Come se puo videre in Quella/ descriptione della Cita di Genua, & tanto più si viderebbe si quella mano/ dil autore chi la fece & stampo vi fosse adoperata, per illustrarla di colore./ Perche alhora si monstrarebbe il dissegno tanto vivido nelle roche, pietre,/ boschi, grotte, mare, fiumi, campi vigne giardini, cassine & palazzi, & si vi/derebbono cosi perfettamente il porto il molo li bollevardi, che si direb/be certamente che giano non elessi questa stancia di tanta nobile Cita per/ se solo, anzi la ricerco di accomodarla a Giove, a plutone a Neptune, a/ Marte, a pane & a gli altri dei./ Antonius Vanden Wyngaerde faciebat & excudebat/ IANVEA. M. D. L. III.", cfr. Haverkamp-Begemann (1969), 375-376; Montserrat Galera i Monegal, Antoon van den Wijngaerde, pintor de ciudades y de hechos de armas en la Europa del Quinientos, Barcellona 1998, 206 (KB.1), e Gregg (2019), 53-77.

25 Haverkamp-Begemann (1969), 377-378. Cfr. anche Kagan (1989), 40-53, e Richard L. Kagan, "Philip II and the Art of the Cityscape", in: The Journal of Interdisciplinary History 17 (1986), 115-135.

26 Haverkamp-Begemann (1969), 379-380.

27 Haverkamp-Begemann (1969), 393. Cfr. Kagan (1989), 200-207, e Galera i Monegal (1998), 130 (VA.7), 131 (VA.9), 136 (VA.22), 144 (VA.42), 145 (VA.44), 173 (AM.44).

28 Cfr. il contributo di Martin Raspe in questo volume, DOI: https://doi.org/10.11588/riha.2025.3.113742. Un'idea può darla un disegno di Castel Sant'Elmo e di Pizzofalcone, anche se sembra essere di altra mano e finora è stato attribuito a Hendrick van Cleve.

29 Haverkamp-Begemann (1969), 386-388.

30 I disegni delle città di Alba de Tormes, Ávila, Burgos, Chinchilla, Cuenca, Guadalupe, Medina del Campo, Monzón, Saragozza, Talavera de la Reina, Toro, Valencia e Valladolid presentano una quadratura. Haverkamp-Begemann (1969), Appendice, 389-393.

31 Cfr. il contributo di Martin Raspe in questo volume, DOI: https://doi.org/10.11588/riha.2025.3.113742. Gli altri due disegni firmati con il nome di Stinemolen presentano una grafia completamente diversa. Ciò non significa necessariamente che l'informazione sia errata. Probabilmente la firma è stata aggiunta da un amministratore dell'eredità ben informato.

32 Una prova storica di tale funzione è fornita da una lettera del nano di corte Gonzalo de Liaño a Francesco I de' Medici, in cui racconta come intratteneva il re Filippo II di Spagna e l'infanta Isabella la sera, descrivendo loro la città di Firenze davanti a una sua raffigurazione e indicando con un bastone le sue case e le sue strade ("Florençia que me distes pintada a las tardes nos entretenemos yo con un palo señalo las casas y calles della […]"). La città di Firenze così presentata procurava un tale piacere al re e all'infanta che desideravano vivervi ("que recibe tanto contento el Rey y la Infanta que les toma gana de bibir en ella"). Salvador Salort Pons e Susanne Kubersky-Piredda, "Art Collecting in Philip II's Spain: The Role of Gonzalo de Liaño, King's Dwarf and Gentleman of the Bedchamber: Part II", in: The Burlington Magazine 149 (2007), 224-231: 228, nota 34.