RIHA Journal 0239 | 30 March 2020

La chiesa dei Ss. Faustino e Giovita dei Bresciani a Roma

La storia dell’area del palazzo dei Tribunali tra contese e progetti: da Bramante a Carlo Fontana

Giuseppe Bonaccorso

Abstract
The church of Ss. Faustino and Giovita in Rome was built by the Brescian confraternity in 1575, after they obtained the necessary papal permit for an intervention within the ruins of an unfinished palace of justice (palazzo dei Tribunali) by Donato Bramante. This space played an important role in Rome’s public life, as during the sixteenth century theatrical productions were staged within its walls and one of the first Tiber traghetto dockings was situated nearby. The Brescian community also established a national hospice within the ruins, which was demolished, together with their church, during the late nineteenth-century rebuilding of the Tiber banks. This paper investigates the notion of identity of the Brescian "Nation" (the city of Brescia being ruled by the Republic of Venice, which itself was represented in Rome through different buildings and institutions). It focuses on the activity of Carlo Fontana, the official architect of both the Serenissima and the Brescian confraternity, who designed the new façade of the church of Ss. Faustino and Giovita, as well as many new features of the Venetian embassy in Rome, now known as Palazzo Venezia. Fontana also designed projects in Brescia and neighbouring towns such as Bergamo and Como, as well as different projects in the Veneto, which will be explored here from a comparative perspective.

Una premessa programmatica

[1] La demolita chiesa dei Ss. Faustino e Giovita dei Bresciani che si trovava nei pressi di via Giulia a Roma (fig. 1), ha diversi motivi di interesse storico-artistico: il luogo di edificazione, la committenza e l’architetto che ne ha realizzato la facciata nella seconda metà del XVII secolo.

1 Area del palazzo dei Tribunali a Roma poco prima della demolizione della chiesa dei Ss. Faustino e Giovita (o S. Anna) dei Bresciani per la realizzazione degli argini del Tevere, 1866 (da Domenico Gnoli, „Il palazzo di Giustizia di Bramante”, in: Nuova Antologia, 16 aprile 1914, 569-581)

[2] In primis, si prenderà in considerazione il luogo dove la chiesa venne eretta, e cioè gli affascinanti ruderi moderni del palazzo dei Tribunali. L’ampio edificio, promosso da Giulio II della Rovere (1503–1513), doveva contenere i più importanti tribunali della Curia e della città ed era caratterizzato da una torre centrale, quattro torri angolari e una retrostante cappella con cupola visibile solo dal fiume. L’ambizioso programma edilizio, a causa della morte del pontefice, fu però interrotto al livello delle gigantesche bugne del piano terreno tuttora in parte visibili.1 Quello che rimaneva della costruzione, nel corso della seconda metà del Cinquecento era divenuto familiare ai romani sia per l’utilizzo pubblico delle strutture superstiti della cappella (all’interno della quale si tenevano spettacoli teatrali), sia per l’approdo dei traghetti, questi ultimi impiantati a Roma da Francesco del Nero (1487–1563) su concessione rilasciata da Leone X de’ Medici (1513–1521) ed estesa ai suoi discendenti.2

[3] Come secondo e centrale motivo di interesse, certamente va annoverata la committenza, che era identificabile nella Compagnia dei Bresciani (o Nazione bresciana come qualche volta denominata), la quale fu promotrice della trasformazione tra il 1575 e il 1578 della cappella dell’incompiuto palazzo di Donato Bramante (1444–1514) in una chiesa dedicata ai Ss. martiri Faustino e Giovita.

[4] L’altro argomento di interesse è la scelta del progettista per la definitiva trasformazione d’uso di questi spazi, ancora una volta, da ludici in sacri, e cioè di Carlo Fontana (1638–1714). Il ticinese al contempo era l’architetto della Serenissima a Roma (e in parte anche a Venezia), ma soprattutto era il regista di consistenti lavori edilizi nelle chiese dei veneziani, dei bresciani e dei bergamaschi a Roma e nelle principali chiese riedificate o completate nelle città di origine. Degno di considerazione è anche il ruolo che Fontana rivestiva come “architetto” di molte chiese nazionali che si affacciavano su via Giulia: tale considerazione prefigura strategie più ampie come si vedrà in seguito.

L’importanza del sito coincidente con i ruderi del palazzo dei Tribunali

[5] Per iniziare la ricostruzione di una storia progettuale complessa, rimasta a lungo un’ipotesi sospesa, è necessario partire da una ricognizione storiografica del sito della chiesa dei bresciani, poiché era posto all’interno del perimetro del parzialmente edificato palazzo dei Tribunali.3 In particolare l’area coincideva con i resti della bramantesca cappella del palazzo, in parte realizzata nelle fondazioni e in alzato, che si doveva dedicare a S. Biagio (fig. 2).

2 La cappella del palazzo dei Tribunali, particolare da Étienne Du Perac, Nova Urbis Romae Descriptio, Roma 1577

[6] Giorgio Vasari (1511–1574), nell’edizione delle Vite del 1568, illustrò molto bene le caratteristiche della costruzione iniziata tra il 1506 e il 1508 circa:

Onde Bramante diede principio al palazzo ch’a San Biagio sul Tevere si vede, nel quale è ancora un tempio corintio non finito, cosa molto rara, ed il resto del principio di opera rustica bellissimo; che è stato gran danno che una sì onorata ed utile e magnifica opra non sia finita, ché da quelli della professione è tenuto il più bell’ordine che si sia mai visto in quel genere.4

[7] Dopo l’interruzione dei lavori nel 1511 e la morte di Giulio II nel 1513 si susseguono una serie di iniziative che avevano per fine l’acquisto di porzioni di terreno, interne all’area del palazzo, per la costruzione di edifici che avevano destinazioni diverse rispetto alla tipologia originaria di palazzo di giustizia. La prima testimonianza è datata 1519, quando la Camera Apostolica cede parte dell’area, destinata originariamente ai Tribunali, a Francesco del Nero, il quale vi sistema “casette di speculazione”.5 Tale intervento, come vedremo avanti, è connesso anche all’appalto del traghetto contiguo al palazzo bramantesco. Negli anni successivi, alcune operazioni edilizie, non tutte andate in porto come nei progetti originari, hanno visto per protagonisti Giovanni Pietro Crivelli, Don Miguel da Silva e Ottavio Cesi.6 La struttura preesistente venne quindi di fatto “sottoutilizzata”, grazie anche a finalità improprie di intere porzioni delle sue aree inedificate, a tal punto da giustificare dopo il sacco di Roma e la peste del 1527 l’impiego del sito come luogo di sepoltura.

[8] Va comunque notato che dalla metà del secolo, e prima della concessione nel 1575 alla comunità dei Bresciani di parte della costruzione bramantesca, vengono promosse diverse iniziative da parte di privati e di pontefici per rivitalizzare l’area. In questo senso, ancora la fabbrica della cappella diviene il centro di un progetto alternativo essendo adibita per lungo tempo a rappresentazioni teatrali, accentuando in tal modo uno dei caratteri cinquecenteschi – quello spettacolare – di via Giulia. Se si segue un’analisi più dettagliata, si nota come a partire già dagli anni trenta del Cinquecento, l’elevato numero di concessioni dimostra un’attività modesta, ma significativa, di interventi: il 18 marzo 1538 la Camera Apostolica concedeva a Giovanni Maria de Radis il suolo per edificare una casa; il 7 ottobre 1541 veniva concessa a Giovanni Gaddi una fornace per la produzione della calce; il 17 ottobre 1547, Nicola Mancio (che aveva effettuato diversi interventi di bonifica dell’area) aveva richiesto la concessione di un terreno presso l’antica chiesa di S. Biagio della Pagnotta, in direzione del Tevere e attiguo al perimetro del palazzo dei Tribunali, ottenendone il suolo ad uso mulino.7

[9] Decisamente più interessanti le concessioni successive. Infatti, il 9 dicembre del 1547 Paolo III Farnese (1468–1549), preoccupato per lo stato di abbandono e degrado in cui versavano i resti dell’edificio di Bramante, aveva concesso con motu proprio ancora al fiorentino Francesco del Nero, già tesoriere generale della Camera Apostolica al tempo di Clemente VII de’ Medici (1523–1534) e proprietario di alcuni immobili nel perimetro originario del progetto bramantesco, altre sei abitazioni ricavate nel palazzo dei Tribunali, con l’obbligo di manutenzione seguendo un “modulum in presentibus traditum”. Per garantirsi il rispetto del “modulum”, la Camera Apostolica aveva nominato un supervisore dei lavori: Iacopo Meleghino (1480–1549), alla cui morte successe Mario Maccarone.8 Dal documento si evince come siano possibili tre diverse soluzioni per la riorganizzazione delle strutture superstiti: la prima che prevedeva l’esecuzione del progetto originario dei tribunali di Giulio II; la seconda che avrebbe consentito il restauro degli edifici preesistenti e il successivo sfruttamento commerciale dell’area sia da parte di del Nero, sia – di conseguenza – della Camera Apostolica; la terza invece prevedeva l’edificazione di un non meglio identificato nuovo “palatium spectabile”.9 La concessione a del Nero viene sancita con un decreto camerale del 9 dicembre 1549.

[10] Cognato di Niccolò Macchiavelli, Francesco del Nero era un contabile e amministratore fiorentino, che curò dapprima gli interessi commerciali di Filippo Strozzi e in seguito divenne cardinale tesoriere di Clemente VII. Pur risiedendo con continuità a Firenze fino al 1517, del Nero è presente a Roma già dal 1517 al 1521, per poi risiedervi con una certa continuità dagli anni trenta del Cinquecento. Il suo nome venne accostato, da parte di una consolidata letteratura storiografica,10 alla concessione rilasciata da Leone X per collocare il primo traghetto a canapo fisso sul corso del Tevere compreso entro il circuito delle mura aureliane. Esso metteva in connessione il vicolo che costeggiava il palazzo dei Tribunali (dal lato dell’antica chiesa di S. Biagio della Pagnotta) e l’altra sponda trasteverina all’altezza della chiesa di S. Leonardo alla Lungara (fig. 3). La concessione era possibile in quanto lo stesso del Nero aveva acquisito alcune piccole residenze nel 1519 nellarea del palazzo dei Tribunali ove successivamente era stata fissata la fune per il traghetto.11

3 Il Tevere ed il traghetto che lo attraversa dal palazzo dei Tribunali a San Leonardo, particolare da Geert van Schayck, Nova urbis Romae descriptio cum omnibus viis aedificiisque […], Roma 1630

Altre residenze destinate al mercato degli affitti vennero realizzate anche dalla famiglia di Orazio Ruspoli e da Luca Martini, “capitano” originario di Firenze, che costruì piccole abitazioni al fianco della preesistente chiesetta di S. Biagio.12

[11] Del Nero, deceduto il 12 luglio 1563, lasciò agli eredi, in particolare al figlio Cecchino (Francesco junior), una lunga serie di strascichi giudiziari a seguito delle cause svoltesi sotto i pontificati di Paolo III e Giulio III, che videro coinvolti i proprietari di edifici e di altre attività commerciali che lo stesso del Nero aveva impiantato nell’area del palazzo ‘giuliesco’. Evidentemente la zona era ancora oggetto di attenzione da parte dei pontefici e della Camera Apostolica. Infatti, come osservato da Flavia Cantatore, ancora alla metà del Cinquecento le aree interne al perimetro del progetto di Bramante rimangono associate alla possibilità, che negli anni si fa sempre più labile, di una possibile ripresa della fabbrica. Gli affittuari dei nuovi casamenti, infatti, quasi sempre legati alla Curia, „chiedono conferma delle concessioni accordate (contratto di affitto, permesso di eseguire lavori) e la Camera [Apostolica], dal canto suo, si riserva sempre la possibilità di cambiare idea in proposito entro un certo tempo stabilito”.13

[12] Dopo un periodo di stasi, secondo Suzanne Butters e Pier Nicola Pagliara, un nuovo motu proprio del 30 gennaio 1556 attestava come ancora Paolo IV Carafa (1555–1559) pensava al completamento del palazzo per creare „una sede unica in cui si potessero discutere tutte le cause”.14 Che questa intenzione avesse fondamento, è testimoniato in un certo senso dall’analoga volontà manifestata da papa Pio IV de’ Medici (1559–1565), il quale proverà anch’egli a portare a termine la costruzione dei Tribunali giuliani. Per tale scopo il pontefice incaricò esplicitamente Orazio Muti, noto appaltatore edilizio e conservatore della Camera Capitolina, di riprendere il progetto e di terminarlo definitivamente.15 Una serie di contingenze politiche probabilmente contribuirono a un rapido insabbiamento dell’iniziativa di Pio IV. Le stesse contingenze che influirono anche sui successivi tentativi, falliti, di acquistare proprietà immobiliari nella medesima area, necessarie per il completamento del fascinoso rudere moderno del palazzo bramantesco. In quest’ottica sono comprensibili i reiterati tentativi di Cosimo I (1569–1574) e poi di Francesco I de’ Medici (1574–1587), granduchi di Toscana, di acquistare il palazzo per farne la residenza del cardinale Ferdinando de’ Medici (1549–1609). Tali tentativi, perpetrati invano a partire dal 1569, si infransero definitivamente il 7 maggio del 1575, quando Gregorio XIII Boncompagni (1572–1585) negò in modo risolutivo al granduca l’acquisto dei ruderi e delle case sorte sulle architetture bramantesche.16

[13] Forse non è un caso, che più o meno contemporaneamente, ancora nel 1575, i Bresciani ottengano le parti costruite del “tempio corintio” (nel frattempo divenuto teatro) originariamente previsto all’interno del perimetro del palazzo ‘giuliesco’.17 Nonostante le trattative e la vendita di parte del sito alla Compagnia bresciana, si possono ricordare altri tentativi e operazioni finanziarie programmate per l’area a testimonianza di un fascino che la costruzione imperfetta evocava a nobili, prelati romani e forestieri. Eloquente in questo senso la volontà di Sisto V Peretti (1585–1590) di far riprendere la costruzione del palazzo (18 giugno e 1 luglio 1588),18 che rimase tuttavia una mera intenzione, rilanciata però successivamente, ma senza alcun esito, anche da Clemente VIII Aldobrandini (1592–1605).19

[14] La zona, che da queste laconiche notizie risultava frammentaria e quasi dismessa,20 in realtà per una serie di iniziative ludiche, imprenditoriali e sociali era molto frequentata dai romani. Per esempio, secondo Girolamo Amati, l’area compresa tra le case di del Nero e quelle dei Ruspoli (palmi 27 x 90), nel corso del Cinquecento, venne adibita a sferisterio da Matteo dei Caravaggi, “architettore o piuttosto capomastro di quella medesima casata”.21 Il campo di gioco ospitava tornei di pallone con il bracciale (allora anche noto con il nome di “pallapugno”). Molto popolare a Roma e in tutto lo Stato Pontificio (soprattutto nelle Marche e in Romagna), il gioco era molto seguito nella penisola italiana anche a Firenze (dove aveva avuto origine), a Milano, in Liguria e in Piemonte. Il terreno da gioco ubicato nel sito dei Tribunali era costituito da una superficie piana ammattonata (e non battuta, come in altri casi coevi fuori lo Stato della Chiesa), dal perimetro rettangolare di circa 27 per 90 palmi (6 metri per 20 metri),22 delimitato su uno dei lati lunghi da un muro d’appoggio e sormontato da una rete. Allo sferisterio “de’ Banchi” (così veniva identificato quello all’interno dei resti del palazzo dei Tribunali), sufficientemente ampio per contenere giocatori, giudici e spettatori, come testimonia ancora Amati, „si accedeva tramite un andito stretto 5 palmi, che immetteva in un palco ligneo alto 9 palmi e largo 3 e mezzo”,23 con due logge per i giudici di gara all’estremità. Il campo da gioco, non a caso esemplato sugli impianti fiorentini (la cui comunità lo aveva introdotto a Roma nel corso dei Carnevali di inizio Cinquecento), era localizzato all’incirca nell’area occupata dal 1616 dalla chiesa di S. Maria del Suffragio.24

[15] Un’altra destinazione della zona era legata allo spettacolo. Sotto il pontificato di Giulio III del Monte (1550–1555) infatti le costruzioni superstiti della cappella iniziata da Bramante vennero adibite a primo teatro pubblico romano, nel quale, secondo Manfredo Tafuri, recitarono per la prima volta a Roma gli Accademici Intrepidi.25 Successivamente Gregorio XIII Boncompagni (1572–1585) consentiva la rappresentazione de Il Giudizio e la Distruzione di Gerusalemme, mentre Sisto V Peretti autorizzava i Desiosi di tenervi recite, „in cambio di elemosine a favore dei luoghi pii”.26 Non si conosce la fine di tale destinazione d’uso, argomento da indagare ulteriormente, pur se Fioravante Martinelli identifica nel 1575 la fine delle recite tenute nella cappella del palazzo.27 L’anno coincide con la fine dei lavori di trasformazione, condotti dall’architetto Domenico Fontana (1543–1607), da teatro a nuova chiesa della Compagnia dei Bresciani dedicata ai Ss. Faustino e Giovita.28 Nonostante ciò, sono diverse le testimonianze che indicano come nell’area (forse scoperta o forse all’interno di un altro sito) si continuassero a tenere spettacoli teatrali almeno sino al 1588.

[16] Un altro intervento fu il posizionamento di uno dei passi delle cosiddette barchette “traiettizie”; questi piccoli natanti consentivano ai romani di attraversare il fiume e di giungere rapidamente nel rione di Trastevere. Anche in questo caso un ruolo ancora decisivo spetta a del Nero, il quale era il concessionario dell’approdo dei traghetti che attraversavano il fiume all’altezza del vicolo del Cefalo dalla parte del rione Ponte (quindi al fianco del perimetro del palazzo dei Tribunali) sino allo spiazzo antistante alla piccola chiesa di S. Leonardo nei pressi di via della Lungara nel rione di Trastevere.29 Questo passaggio era assicurato da un traghetto che era agganciato a una cima per impedire lo slittamento della barca ad opera della corrente fluviale.30

[17] Le relazioni che del Nero intratteneva con i maggiori esponenti della vita culturale ed economica fiorentina, in particolare con Filippo Strozzi, Nicolò Macchiavelli e la cerchia di Leone X, probabilmente gli consentirono di avvicinare Leonardo, quest’ultimo in quegli anni a stretto contatto con la corte medicea a Roma. Il progettista toscano, proprio durante il suo soggiorno romano, stava anche lavorando a ingegnosi sistemi di attraversamento fluviale e a meccanismi tendifune molto simili a quelli adottati dalle barchette traiettizie romane. Anche se sono ipotesi da verificare, del Nero potrebbe aver finanziato (e lucrato poi negli anni) sull’ingegnoso sistema di traghettamento (forse) leonardesco.31

[18] Ricordiamo che al tempo esistevano solo tre ponti fissi lungo il Tevere e la moda dei traghetti fu talmente popolare al punto che, alla fine del Seicento, se ne contano almeno otto lungo il tratto urbano del fiume. Tali attraversamenti dovevano far assomigliare vagamente il Tevere al Canal Grande veneziano (fig. 4).

4 Il Tevere ed i traghetti del palazzo dei Tribunali (a sinistra) e di quello dell'Armata (a destra), particolare da Giovanni Maggi, Descriptio Urbis Romae novissima, Roma 1625

La concessione del passaggio era abbastanza rimunerativa in alcuni tratti, in altri meno. Quella di del Nero permetteva di raggiungere rapidamente Trastevere e di tagliare poi verso Borgo e S. Pietro; quindi forse la più frequentata rispetto agli altri tragitti. Evidentemente il trasporto consentiva un certo profitto poiché sono numerose le testimonianze che ci informano sulla presenza di numerosi abusivi perseguiti pesantemente dalla giustizia. Un traghettatore illegale che portava senza licenza persone da una sponda all’altra, rischiava di avere seri problemi con la magistratura capitolina. Un avviso di Roma del 3 agosto 1577 è piuttosto eloquente: „Sono stati presi alquanti barcaroli che nel Tevere traghettavano gente e saranno mandati in galera”.32

[19] Evidentemente in quegli anni il fiume aveva ripreso un ruolo centrale sia nella comunicazione e nel trasporto di persone e merci, sia per un rinnovato ruolo cerimoniale nell’Urbe. Tale mutamento, come dimostra Christoph Luitpold Frommel,33 si può facilmente individuare proprio a partire dagli anni in cui Bramante arriva a Roma, ma persiste solo per un periodo di tempo determinato, poiché si esaurirà già nella seconda metà del Cinquecento. Il conseguente effetto che produsse tale rinnovata attenzione verso il Tevere, portò alla creazione di nuovi e monumentali fronti di edifici che affacciavano direttamente sul fiume. In controtendenza, quindi, rispetto alla maggioranza dei casi in cui la facciata sul Tevere era quella secondaria (dove sovente si affacciavano i servizi), questa nuova propensione aveva contribuito a creare circoscritti ed eleganti risoluzioni, spesso inserendo logge e ambiziosi affacci verso il fiume. Un atteggiamento che venne inaugurato proprio da Bramante, con il prospetto tergale del palazzo Altoviti nei pressi del trivio di Ponte, di fronte a Castel Sant’Angelo,34 o come nel fronte verso il fiume del palazzo dei Tribunali, il quale era caratterizzato dalla presenza dell’abside della cappella dedicata a S. Biagio, che interrompeva proprio nel centro il rettilineo e regolare prospetto del palazzo, ma anche dall’abside di S. Giovanni dei Fiorentini, messa da Sansovino sopra la ripa.

[20] Dopo la trasformazione dei moderni ruderi della cappella bramantesca nella chiesa della Compagnia dei Bresciani e prima dell’intervento seicentesco di Carlo Fontana, ci troviamo di fronte quindi a una sorta di piccolo quartiere (o addirittura piccola città), il cui perimetro era alla base recintato dalle imponenti bugne bramantesche che erano state collocate in situ (fig. 5).

5 Bugne bramantesche del palazzo dei Tribunali, Roma (foto dell’autore)

Quindi, uno spazio dal perimetro rettangolare, dove si erano insediate lungo il profilo esterno, su via Giulia, due chiese (S. Maria del Suffragio, la vecchia chiesa di S. Biagio della Pagnotta) e l’Ospizio degli Armeni, mentre al suo interno la piccola chiesa dei Ss. Faustino e Giovita dei Bresciani (fig. 6), e poi abitazioni, botteghe, una calcara, un forno e una via di accesso al fiume, da cui si giungeva a un approdo attraverso cui poter prendere un traghetto che conduceva nel dirimpettaio rione di Trastevere.35 Quasi un piccolo palazzo di Diocleziano, ubicato non sulle rive adriatiche di Spalato, ma piuttosto sulle ripe del Tevere nel centro dell’Urbe.

6 Prospetto di via Giulia nel tratto del perimetro del palazzo dei Tribunali, in una incisione del primo Settecento (da Luigi Salerno, Luigi Spezzaferro e Manfredo Tafuri, Via Giulia: una utopia urbanistica del 500, Roma 1975, 324)

[21] Probabilmente la disposizione di queste chiese (ed edifici) piuttosto frammentate, ma rigidamente bloccate nel perimetro del palazzo, aveva in un certo modo rafforzato l’interesse delle varie comunità nazionali di potersi disporre lungo l’area di strada Giulia. Ricordiamo, in proposito, la presenza delle chiese e degli ospizi dei napoletani, senesi, fiorentini, bolognesi e, appunto, dei bresciani.

La chiesa e la confraternita della nazione bresciana

[22] La confraternita dei Ss. Faustino e Giovita fu fondata il 6 novembre del 1569 dai componenti della comunità bresciana di Roma, per iniziativa del cardinale Giovanni Francesco Gambara (1533–1587).36 Gli statuti furono approvati l’11 giugno 1576 da Gregorio XIII Boncompagni (1572–1585) e pubblicati nel 1594. Una data centrale per il presente studio è individuabile nel 5 maggio 1576, quando la neo-costituita confraternita acquistò le strutture murarie della cappella bramantesca, da dedicare a San Biagio, insieme con una porzione del palazzo dei Tribunali. La Compagnia pagò la cifra di 1.000 scudi ad Antonio Guidotti, successore di Giulio Segni, cui Paolo III Farnese (1534–1549) aveva ceduto una parte del sito delle strutture incomplete del palazzo. Il contratto prevedeva l’acquisto della cappella e di parte dell’edificio „in forma di torre” per costruire, nello stesso luogo, una chiesa da dedicare ai Ss. Faustino e Giovita e un oratorio per la stessa confraternita.37 L’acquisto viene stipulato per parte della Compagnia bresciana dai custodi: Stefano Parisi, Giovanni Battista Averoldi e Girolamo Franzini (1537–1596).38 Il cardinale Gambara contribuì in proprio al riadattamento. Ma come si presentava la cappella bramantesca alla sospensione dei lavori e prima della sua temporanea trasformazione in teatro, e perché i Bresciani decidono di collocare la loro chiesa in un luogo, che in apparenza era un fortilizio di interessi principalmente fiorentini, ma anche pisani e senesi? Sono dei quesiti a cui si deve cercare di trovare una spiegazione.

[23] Iniziamo dalla prima considerazione. E cioè, cosa restava della cappella bramantesca di S. Biagio, parte integrante del progetto bramantesco per il palazzo dei Tribunali voluto da Giulio II della Rovere (fig. 7).

7 Pianta del piano nobile del palazzo dei Tribunali a Roma. Galleria degli Uffizi, Firenze, inv. 136 Ar (da Christoph Luitpold Frommel, „La città come opera d’arte: Bramante e Raffaello (1500–20)”, in: Storia dell’architettura italiana. Il primo Cinquecento, ed. Arnaldo Bruschi, Milano 2002, 91)

Probabilmente Bramante, che poté essere libero nella scelta di un sito dal perimetro rettangolare, partì dall’organizzazione delle sale da adibire alle diverse funzioni previste per un palazzo di giustizia, disposte intorno a un cortile regolare,39 all’interno del quale, attraverso il portico del lato di fondo si accedeva alla cappella opposta all’ingresso principale, con l’abside rivolta verso il fiume. In questo contesto Bramante inserì un edificio centrico a ottagono irregolare, analogo a quello che origina il vano centrale di S. Pietro, operando su un quadrato di base di 100 x 100 palmi, cui è aggiunta una breve navata costituita da due ridotte campate rettangolari.40 Secondo Christof Thoenes, da un’analisi del foglio nella Staatliche Graphische Sammlung di Monaco di Baviera probabilmente steso da Aristotele da Sangallo (fig. 8), risulta che Bramante utilizzasse cifre intere per tutte le misure principali della costruzione. Il confronto con S. Pietro mostra così una somiglianza sorprendente con lo schema di Sangallo riproducente la chiesa dei Tribunali.

8 Aristotele da Sangallo (attr.), pianta e interno della chiesa di San Biagio nel palazzo dei Tribunali. Monaco di Baviera, Staatliche Graphische Sammlung, Sangallo-Kreis, Bibbiena, Klebeband III, p. 105 (da Kurt Zeitler, Architektur als Bild und Bühne. Zeichnungen der Bramante- und Michelangelo-Nachfolge aus dem Atelierbestand des Alessandro Galli Bibiena. Ein Bestandskatalog, Monaco di Baviera 2004, 107)

La cappella riprendeva quindi il tema della cupola petriana, su arcate e pilastri diagonali, che domina lo spazio di una breve navata antistante (in pratica si potrebbe definire un S. Pietro in miniatura, pur mancando del quincunx). Su tale ipotesi, nella mostra „Donato Bramante e l’arte della progettazione” tenutasi a Vicenza nel 2015,41 se ne è fornita anche una raffigurazione grafica che illustra, sovrapponendole, la pianta della chiesa dei Tribunali a confronto con la pianta di S. Pietro ricostruita da Sebastiano Serlio.42

[24] Della chiesa fornisce una chiara lettura anche Andrea Palladio (1508–1580) in un disegno conservato nella Pinacoteca Civica di Vicenza nel quale rappresentava lo spaccato ortogonale (fig. 9).43

9 Andrea Palladio, spaccato ortogonale di San Biagio a Roma. Pinacoteca Civica, Vicenza (da Lionello Puppi, Palladio. Corpus dei disegni al Museo civico di Vicenza, Milano 1989, tav. 43).

Questo disegno viene datato da Howard Burns agli anni quaranta del Cinquecento, come provano le scritte tracciate in grafia “con epsilon”.44 La ricostruzione palladiana fa parte dei rarissimi disegni dell’architetto vicentino da opere moderne. Il disegno non è però una copia del progetto bramantesco, quanto piuttosto una copia da un altro disegno o una restituzione realizzata sulla base di ciò che era allora visibile. Nella ricostruzione palladiana la cupola è omessa.45 Il disegno quindi è molto importante poiché mostra la situazione alla metà del Cinquecento, ma anche l’aspetto della cappella prima della trasformazione in teatro.

[25] Si è detto quindi dell’importanza del sito dei Tribunali, della forma della chiesa bramantesca, di come, per iniziativa di del Nero, un’area dimessa46 venne ravvivata grazie alla costituzione di un teatro in un centro di attività ludiche che, evidentemente, movimentarono un’arteria che stava progressivamente qualificandosi come zona residenziale. La strada, infatti, che faceva parte del reticolo viario che portava a S. Pietro, si caratterizzava sia per fattori positivi, quali la presenza dei traghetti e dei vicini banchi senesi e fiorentini, ma anche per la contemporanea presenza di consuetudini sociali piuttosto varie che nei secoli hanno connotato l’area anche di aspetti negativi. Ne è prova evidente la tangibile presenza dei gendarmi per opporsi a una delinquenza molto consistente, alimentata oltre che dal disagio sociale dei ceti meno abbienti anche dalla presenza fortissima del meretricio e di vari luoghi di detenzione.47 L’alto numero di locande, unito al diffuso commercio che si era sviluppato per la vicinanza con via del Pellegrino e con le sue botteghe, contribuiva quindi alla metà del XVI secolo a rendere tutta l’area vitale e in vario modo integrata al tessuto sociale romano. In una prospettiva, quindi, assai diversa da quella odierna, dove strade a grande percorrenza veicolare come il Lungotevere e il Corso Vittorio Emanuele isolano inesorabilmente via Giulia dal resto della città.

[26] Tornando alla metà del Cinquecento appare evidente come anche la ‘fiorentinità’ dell’area a sud del palazzo dei Tribunali fosse gradualmente mutata.48 La presenza dei bresciani, ma soprattutto dei veneziani, era consistente. Sono numerose le testimonianze che ci informano come tutta l’area compresa tra via del Pellegrino e i ruderi del palazzo bramantesco fosse piena di botteghe di orafi, vetrai, merciai: tutte attività che a Roma erano per la maggior parte officiate da veneziani. Le notizie raccolte da Antonino Bertolotti49 ci informano poi della consuetudine dei conduttori delle botteghe di oreficeria e di vetri di abitare negli stessi stabili, probabilmente per controllare i forni da fuoco per la produzione.50 Da questo si deduce come seppur i veneziani avessero la loro chiesa rappresentativa di S. Marco sotto il Campidoglio e annessa a palazzo di Venezia; in realtà si costituivano in una comunità sparpagliata per la città con una forte accentuazione proprio nell’area a ridosso dei tribunali bramanteschi e di via del Pellegrino, di via Giulia e delle zone strettamente limitrofe.51 La presenza veneta in città fu collegata, quindi, all’artigianato tipico veneziano, a cui si doveva aggiungere quello delle armature (fig. 10), commercio esclusivamente legato ai bresciani e ai bergamaschi (ambedue le comunità facevano parte della Serenissima), ma erano importanti anche le botteghe degli incisori e lavoratori del piombo, spesso anch’essi veneti e dalmati, dei librai e stampatori in parte veneziani e bresciani, degli intagliatori di legname, anche qui monopolio o quasi di bergamaschi, friulani e trentini, dei merciai, veneziani, e degli “spaccapietra”, ancora dalmati e istriani.52

10 Laminarius [fabbricante di armature], da Hartmann Schopper, Panoplia. Omnium illiberalium mechanicarum aut sedentariarum artium genera continens, Francoforte 1568

[27] Queste comunità ‘corporative’ erano allocate proprio lungo un rettifilo ideale che portava da Campo de’ Fiori lungo i banchi, da via del Pellegrino sino ai ruderi del palazzo dei Tribunali e poi, seguendo un itinerario che era anche quello dei pellegrini che acquistavano i loro prodotti (monili, croci, anelli, vetri, souvenir religiosi, corone in vetro, rosari, tovaglie, armi, ferri battuti ecc.) passava il Tevere con il traghetto per finire a Borgo e poi direttamente a S. Pietro, dove anche lungo i borghi sono molte le testimonianze di numerose famiglie e mercanti veneziani.53

[28] La storia della costituzione della confraternita dimostra come la ‘brescianità’ dei suoi componenti, unita al protettorato veneto, sia strettamente legata anche al luogo. Il fondatore della società, Giovanni Francesco Gambara, era bresciano. Già cameriere segreto di Giulio III del Monte, Gambara fu creato cardinale da Pio IV nel 1561 e nominato da Pio V Ghislieri (1566–1572) anche vescovo di Viterbo. L’azione di Gambara fu molto incisiva nel territorio della Tuscia. Grazie alle sue iniziative pubbliche e private vennero realizzati significativi complessi architettonici quali l’ospedale e l’arcidiaconato della cattedrale di Viterbo e la villa di Bagnaia. Tale attivismo si ritrova anche nell’iniziativa di radunare nella sua residenza romana il 6 novembre del 1569 i più influenti bresciani residenti nell’Urbe allo scopo di creare una nuova confraternita, e di conseguenza una nuova chiesa per ospitarla. La nuova chiesa nazionale venne dedicata ai santi martiri Faustino e Giovita, patroni di Brescia, da sempre associati ai valori cristiani della fede e della giustizia, ed è possibile che quest’ultimo valore forse fosse presente anche nella scelta del sito della chiesa.

[29] Sono diversi i componenti della comunità bresciana che avevano in parte finanziato la costruzione. A parte il contributo di Gambara, i nomi delle famiglie probabilmente coinvolte nell’avventura della costruzione erano quelle che avevano interessi comuni a Brescia, Roma e Venezia. I nomi più importanti sono da ricercarsi tra gli Averoldi, i Martinengo e gli Ottoboni, come traspare con evidenza dalla storia degli esordi della Compagnia. Infatti, oltre al cardinale Gambara, nominato perpetuo protettore della confraternita, come finanziatori e sostenitore troviamo i ricchi commercianti bresciani di armi e armature residenti a Roma: Giovanni Battista Averoldi, Stefano Parisi e Girolamo Franzini, quest’ultimo anche autore, stampatore e cavaliere del Giglio.54 A questi nomi si possono associare il notaio Dusina, il monsignore Girolamo Monti e il conte Girolamo Martinengo Cesaresco (1503–1569), nunzio apostolico per Paolo III presso Ferdinando d’Austria e presso il re di Polonia, e per Pio IV presso la regina d’Inghilterra. Il ruolo di Martinengo Cesaresco fu decisivo per la realizzazione della rappresentanza bresciana a Roma. Egli infatti presiedette la Camera Apostolica e prima di morire consegnò a Gambara „suo prossimo parente, una vistosa somma per l’erezione della chiesa e della confraternita bresciana”.55 Ricordiamo che il sito del palazzo dei Tribunali era di proprietà della Camera Apostolica e quindi la scelta, per quanti nessi avesse con l’area veneziana a Roma, forse derivava almeno all’inizio da mere contingenze di opportunità economica e pratica. Anche alcune istituzioni religiose contribuirono all’iniziativa di creare un polo bresciano nell’Urbe, quali la congregazione dei Ss. Gervasio e Protasio o il capitolo bresciano dei Ss. Faustino e Giovita.

[30] Tra il 1576 e il 1578, secondo le ricostruzioni di Hellmut Hager, la confraternita dei Bresciani fece completare a Domenico Fontana il „tempietto corintio non finito” bramantesco per destinarlo a chiesa della Compagnia.56 I lavori furono evidentemente terminati il 15 maggio 1578, quando la chiesa, abbandonata l’originaria dedicazione a S. Biagio, fu consacrata ai patroni della confraternita Ss. Faustino e Giovita.57

[31] La nuova chiesa era a una sola navata e manteneva un impianto tendente alla croce latina, ornata con cinque altari, il maggiore dei quali era dedicato ai santi protettori della confraternita rappresentati nella tela da Francesco Cozza (1605–1682). La prima cappella a destra era dedicata a sant’Anna rappresentata in una pala attribuita alla cerchia di Federico Barocci (1535c.–1612).58 La tela, danneggiatasi con il tempo, fu sostituita da un’altra di soggetto analogo dipinta dall’artista bergamasco Francesco Coghetti (1802–1875). Del XVI secolo era un crocifisso ligneo che adornava la cappella a sinistra, mentre meno rilevanti erano gli autori delle tele degli altri due altari dedicati a sant’Antonio da Padova e a san Nicolò. Il soffitto era piano ed era affrescato ancora da Francesco Cozza con una composizione che illustrava il trionfo dei santi martiri bresciani. Per la vicinanza al Tevere, la chiesa non disponeva di un coro e il presbiterio era di dimensioni molto limitate (fig. 11). Al fianco di quest’ultimo si trovava l’oratorio anch’esso di modeste dimensioni.

11 Altare maggiore della chiesa dei Ss. Faustino e Giovita a Roma, da Pietro Martire Felini e Prospero Parisio, Trattato nuovo delle cose meravigliose dell’alma città di Roma, Roma: Girolamo Franzini 1610, 120

[32] Dagli statuti della Compagnia59 si evince che l’istituzione avesse in realtà un duplice indirizzo: uno maschile sotto la protezione dei Ss. Faustino e Giovita e uno femminile sotto l’assistenza di sant’Anna.60 Si stabiliva inoltre che dovesse esserci sempre un cardinale protettore della chiesa e della confraternita e un primicerio, nella persona di un prelato o patrizio bresciano, che ne poteva fare le veci. Presiedeva le adunanze un priore, mentre tre guardiani (o custodi), assistiti da quattro consiglieri, si occupavano dell’amministrazione. La gestione del Luogo Pio veniva periodicamente rendicontata a due sindaci nominati dal consiglio generale. Lo statuto prevedeva poi il mantenimento di un avvocato per assistere gratuitamente i bresciani indigenti di fronte a qualsiasi tribunale romano, come pure l’assunzione di un medico per assistere gli ammalati degenti nell’ospizio (che si realizzò più tardi al fianco della chiesa) e quelli degenti nelle loro abitazioni.61 L’Opera Pia si occupava anche del mantenimento dei fanciulli orfani e di aiutare finanziariamente le ragazze bresciane in procinto di sposarsi.

[33] Bisogna precisare come la chiesa, pur essendo una rappresentanza della comunità bresciana, in realtà faceva parte dell’orbita extraterritoriale della Serenissima a Roma. Tale dipendenza è evidente dai cardinali protettori succeduti al Gambara, in buona parte legati a comunità o a mansioni ricoperte nelle principali città venete e anche alla già ricordata residenza in un’area di Roma dove la presenza degli artigiani veneziani era cospicua.62 Questa sorta di legame era ribadita anche dall’esistenza delle attigue chiese di S. Eligio degli Orefici e di S. Lucia, dove si possono ritrovare ampie testimonianze di fedeli di origine veneta e veneziana in particolare.63

[34] Come si evince dalle ricerche di Manfredo Tafuri, ai lavori di ripristino della chiesa seguirono quelli per il restauro di una casa ad essa attigua.64 Le grandi somme destinate a tale scopo dal cardinale Agostino Valier (1531–1606), vescovo di Verona,65 che successe al Gambara nella protezione della Compagnia, permisero la fondazione di un ospizio per i pellegrini e gli infermi bresciani: un’altra istituzione di assistenza ‘nazionale’ si insediò quindi nella zona di via Giulia, confermando la destinazione funzionale dell’area dopo il tramonto del progetto roveresco. Anche dell’ospizio, demolito insieme alla chiesa nel 1888, non si conosce il nome dell’architetto. Con ogni probabilità l’Ospizio dei bresciani prese posto nel lotto allungato sulla sinistra della chiesa dei Ss. Faustino e Giovita (fig. 12), che si allineava nella strada perpendicolare al vicolo del Gonfalone.66

12 Portale di una delle case, tuttora esistenti, di proprietà della Compagnia dei Bresciani che si trovavano al fianco della chiesa, Roma (foto dell’autore)

[35] I lavori intrapresi furono significativi e la compartecipazione dei confratelli benestanti fu estesa. A giudicare dalle cronache ottocentesche di Fè d’Ostiani, molti contribuirono generosamente secondo le loro possibilità. La Compagnia fu sostenuta, oltre che dalle offerte e le elargizioni dei cardinali protettori, anche dai primi priori della confraternita, Troilo Luzzago, Quinto Segala e Girolamo Riva, come pure attraverso legati testamentari di altri nobili bresciani. Si trattava spesso di amici e conoscenti del fondatore Gambara, tra l’altro tutti distintisi in varie iniziative commerciali, giuridiche e letterarie tra Roma e Venezia: Paolo Avogadro (†1583), Marco Amadori (†1589), Giulio Cocciano (†1596), Pietro Maria degli Obizi (†1597), Giammaria Reccagni (1542–1606), oltre al già citato Girolamo Franzini.67 Dopo Agostino Valier, tra i cardinali protettori si possono menzionare i veneziani Giovanni Dolfin (1545–1622) e Federico Cornaro (1579–1653), mentre tra i primiceri va ricordato Vincenzo Averoldi (1574–1623), sepolto nella chiesa.68

[36] La Compagnia programmò poi, sotto il cardinale protettore veneziano Pietro Vito Ottoboni (1610–1691) e sotto il priorato dell’abate bresciano Pietro Palizzi (quindi fra il 1653 e il 1711), un’ampia ristrutturazione di tutta l’area di sua proprietà, compreso il rifacimento della chiesa e della sua facciata per opera del ticinese Carlo Fontana, tra l’altro discendente di quella genealogia familiare di cui uno dei capostipiti a Roma fu Domenico Fontana che per primo pose mano alla ridefinizione tardo-cinquecentesca della chiesa. Tradizionalmente viene riferito al 1664 l’anno di costruzione del solo prospetto, data tramandataci da alcune guide in parte coeve. Il mio ritrovamento della lettera patente anticipa al 1663 l’inizio della costruzione (fig. 13).69 Dalla successiva comparsa dei prelati, che amministravano la chiesa, nei registri degli stati delle anime si può far risalire al 1665 la conclusione dei lavori.70

13 Lettera patente per l’erezione della facciata della chiesa dei Ss. Faustino e Giovita della nazione bresciana, 1663. Archivio di Stato di Roma, Presidenza delle Strade, r. 46, c. 60

[37] Una più incisiva restaurazione della chiesa, progettata probabilmente dallo stesso Carlo Fontana, sembra sia stata programmata in occasione della nomina a pontefice di Pietro Vito Ottoboni nel 1689, che scelse il nome di Alessandro VIII (1689–1691). A causa della morte improvvisa del pontefice nel 1691, probabilmente i lavori furono solamente pianificati ma non eseguiti. Una ristrutturazione della chiesa e forse alcuni leggeri maquillage dell’area furono effettuati solo nel 1732 da suo nipote, il cardinale Pietro Ottoboni (1667–1740). Sull’effettiva consistenza di questi ultimi lavori settecenteschi poco è noto. Le notizie sono spesso contraddittorie, e probabilmente coincidenti con il restauro dell’affresco del soffitto della chiesa. Tuttavia ancora Fè d’Ostiani,71 che non si distingue certo per la precisione, parlava della volta della chiesa, come se in quegli anni questa avesse sostituito il precedente soffitto piano. Purtroppo ci è impedito qualsiasi esame autoptico del manufatto poiché, come noto, per la realizzazione dei muraglioni del Tevere72 la chiesa e l’ospizio vennero demoliti nel 1888.

L’incarico a Carlo Fontana

[38] Le vicende della commissione a Carlo Fontana meritano un ulteriore approfondimento. L’allora giovane e ambizioso architetto ticinese (che nel 1663 aveva solo 25 anni), non si limitò solo alla ristrutturazione della chiesa, ma concepì un progetto di edilizia urbana che solo in parte verrà realizzato (fig. 14). Come noto, la possibilità di studio del modello bramantesco della cittadella della giustizia che era alla base del progetto del palazzo dei Tribunali (il quale era comprensivo anche di una piazza antistante dove dovevano essere collocati – probabilmente – anche gli uffici notarili),73 è all’origine delle idee fontaniane per la realizzazione di una pubblica Curia (detta Innocenziana); quest’ ultima fu fabbricata alla fine del Seicento ed è ora nota come palazzo di Montecitorio.74

14 Chiesa dei Ss. Faustino e Giovita dei Bresciani, Roma, prima della demolizione (da Salerno, Spezzaferro e Tafuri, Via Giulia: una utopia urbanistica del 500, 331)

[39] Probabilmente Fontana tentò di ampliare i compiti che implicava il suo incarico, inizialmente concentrati sulla facciata della chiesa, intervento dalla valenza più autenticamente urbana, nel tentativo di creare, nel pelago delle stradine interne al perimetro del palazzo dei Tribunali, un controllato diradamento nel vicino contesto cittadino. L’architetto ticinese aveva l‘intenzione di realizzare (o forse di valorizzare) un corridoio prospettico che conducesse rapidamente da via Giulia all’interno dell’ex-complesso del palazzo dei Tribunali, creando e smussando uno slargo avanti la facciata della chiesa. Fontana aveva probabilmente presente quanto fatto dal suo maestro, Pietro da Cortona, tra il 1656 e il 1657 con la facciata della chiesa di S. Maria della Pace, che dialogava direttamente con lo spazio antistante la piazza, rimodulato dallo stesso Cortona. Non sappiamo quanto della ridefinizione urbana sia stato poi effettivamente realizzato dal ticinese nel suo progetto per i bresciani. Attingendo all’esperienza di scenografo maturata nella sua prima fase professionale, Fontana cercava di dialogare con lo stretto cannocchiale prospettico della strada perpendicolare alla sua chiesa, progettando una facciata stretta e alta tesa a catturare la luce dall’alto.75 Tali scelte determinarono contemporaneamente una nuova ridefinizione dell’interno che, pur perdendo le qualità del piccolo S. Pietro pensato da Bramante, conferirono all’interno una fluida linearità ottenuta grazie al rafforzamento di uno spazio quadrilatero dagli angoli smussati, che sembra riproporre echi semplificati dei vani a matrice rettangolare cari a Borromini (fig. 15).

15 Chiesa dei Ss. Faustino e Giovita dei Bresciani, planimetria della chiesa dopo l'intervento di Carlo Fontana. Rilievo steso prima della demolizione (da Domenico Gnoli, „Il palazzo di Giustizia di Bramante”, in: Nuova Antologia, 16 aprile 1914, p. 14, fig. 12)

[40] La committenza rivestì una notevole importanza per il Fontana e per i suoi progetti futuri. Come detto, l’idea di raccogliere i tribunali influenzò la stesura del progetto di Montecitorio con il sistema dell’ampia piazza antistante, che nelle idee originarie dell’architetto ticinese doveva essere racchiusa da un’esedra costituita da edifici dalla diversa destinazione d’uso, i quali dovevano contenere gli uffici (e le relative residenze) di tutti i notai di Roma. Quindi il complesso di Montecitorio doveva replicare a duecento anni di distanza la cittadella della giustizia bramantesca.

[41] Il ruolo di Fontana nel progetto del piccolo nucleo dei bresciani inoltre è importante anche per la funzione che di lì a poco l’architetto avrebbe svolto quale architetto della Serenissima. Non sappiamo se i rapporti con la comunità dei bresciani, all’ora nell’orbita dei possedimenti veneziani, abbiano consentito a Fontana di giungere a stringere contatti e incarichi con nobili e prelati veneti. Tuttavia proprio a partire dalla settima decade del XVII secolo, l’architetto ticinese diverrà l’architetto ufficiale delle famiglie Valier, Grimani, Cappello e Ottoboni, firmando progetti e realizzazioni sia a Roma sia a Venezia come pure nell’entroterra veneziano.76 È degli stessi anni, infatti, la sua nomina ad architetto della Serenissima, ruolo che lo porta a intraprendere diversi interventi di restauro e integrazione nel palazzo di S. Marco a piazza Venezia (l’allora sede dell’ambasciata della Serenissima a Roma), ma anche di altri progetti per le famiglie Grimani (il palazzo di famiglia nei pressi di piazza Barberini e una villa a Martellago)77 e Valier (l’altare della famiglia nei Ss. Giovanni e Paolo a Venezia).78

[42] Nel duplice ruolo di architetto dei veneziani e dei bresciani, Fontana intraprese almeno due viaggi da Roma all’Italia settentrionale che lo porteranno a visitare fabbriche e osservare palazzi e chiese all’interno della Serenissima: il primo nel 1677, che lo condusse a Verona e poi a Venezia, e il secondo, ormai celebre, nel 1688, effettuato con lo scopo di raggiungere i possedimenti dei Borromeo in Lombardia e da lì formulare i progetti di completamento del palazzo di famiglia ad Isola Bella nel Lago Maggiore.79 Durante questo viaggio Fontana (in compagnia dei suoi allievi Girolamo Fontana e Filippo Cagnola) toccherà tante città tra le quali si ricordano almeno Bergamo, Brescia (probabilmente), Milano, Isola Bella, Arona, Como, Rancate, Brusata, Lodi, Genova e Livorno. Nel corso del tragitto, l’architetto lascerà progetti per Brescia, ma soprattutto per il completamento dei duomi di Como e di Bergamo; anche quest’ultima città, come noto, inclusa nel novero dei confini della Serenissima.80

[43] Le committenze di Fontana sono poi da valutare alla luce della creazione di una fitta rete di relazioni diplomatiche che egli instaurò con i rappresentanti (ambasciatori, nunzi, cardinali) dei principali paesi stranieri a Roma. In pratica una rete di contatti che portarono il ticinese a essere il principale punto di riferimento per l’architettura a Roma, sia dal punto di vista dei pareri, sia dal punto di vista dell’insegnamento (i migliori giovani rampolli della nobiltà europea venivano a imparare l’architettura nel suo studio) e sia dal punto di vista più strettamente professionale, poiché questa rete di contatti consentiva a Fontana di avocare a sé incarichi spesso anche molto lontani dall’Urbe.81 In pratica la costruzione di queste relazioni potrebbe essere un ulteriore campo di ricerca nell’ambito delle comunità nazionali a Roma.

[44] Presso l’Accademia Nazionale di S. Luca è conservato un volume che contiene buona parte dei diplomi delle onorificenze che Carlo Fontana ottenne nel corso della sua lunga vita: architetto della corona di Polonia, del re di Portogallo, della corona imperiale d’Austria, e tanti altri titoli cavallereschi.82 A questi titoli ufficiali andrebbero poi aggiunti gli incarichi di architetto per i principali ambasciatori e diplomatici austriaci e francesi a Roma, dal conte Sternberg al conte Martinitz, dal principe del Liechtenstein al cardinale Forbin Janson, ecc. Inoltre Fontana fu anche l’architetto principale delle maggiori chiese nazionali a Roma, fra cui, solo per citare l’ambito di via Giulia, lo Spirito Santo dei Napoletani, i Ss. Faustino e Giovita dei bresciani e, probabilmente, il Collegio Inglese; per un periodo limitato fu anche attivo a S. Giovanni dei Fiorentini, dove concluse alcuni dei lavori che Borromini aveva intrapreso per i Falconieri e modificò, tra l’altro non poco, l’abside della chiesa stessa, divergendo sostanzialmente dalle idee borrominiane.

[45] Il titolo, per così dire, di “architetto delle nazioni” è ulteriormente confermato dagli incarichi che ricevette a Roma dalle comunità di Cascia, di Venezia, di Brescia (appunto), come pure dai titoli ufficiali di progettista delle corone portoghese e polacca, e della casa imperiale; senza poi contare il rapporto privilegiato che lo stesso Fontana aveva intrapreso con la regina Cristina di Svezia (1626–1689). I rapporti internazionali si rafforzarono quando al ticinese vennero richiesti pareri per nuove fabbriche da costruirsi in Europa e per indicare giovani da indirizzare in località molto lontane da Roma. E allora, in questo caso, possiamo annoverare altri contatti ufficiali con i Cavalieri dell’Ordine di Malta, con la Repubblica di Ragusa (Dubrovnik), con la Spagna, la Francia, l’Inghilterra, la Scozia, la Boemia, la Danimarca, il Ticino, la Svizzera di lingua tedesca e francese, la Russia, il tutto in un vortice di relazioni, lettere, corrispondenze, pareri, perizie, segnalazioni e raccomandazioni ancora oggi difficilmente arginabili e registrabili. Tali rapporti s’irrobustirono poi con le aderenze che lo stesso Fontana aveva con il mondo letterario, musicale e scientifico di allora: le accademie dell’Arcadia e degli Infecondi, le amicizie con Arcangelo Corelli e gli Scarlatti. Tutti questi gli conferirono un ruolo centrale nel pelago delle reti culturali internazionali a Roma.

[46] E così, quando Carlo non riusciva fisicamente a coprire un numero di incarichi ufficiali così elevato, delegava titoli e committenze ai suoi collaboratori. Quindi suo figlio Francesco fu l’architetto titolare della chiesa di S. Luigi dei Francesi, dei Piceni di S. Salvatore in Lauro, del Collegio di Propaganda Fide; oppure il suo capo-studio, il ticinese Matteo Sassi diventò l’architetto di diverse rappresentanze francesi e dei lombardi di S. Carlo al Corso; o ancora Nicola Michetti che sarà l’architetto degli Zar (e con tale titolo passerà anche un lungo periodo professionale a San Pietroburgo),83 o anche Romano Fortunato Carapecchia che diverrà l’architetto dei Cavalieri dell’Ordine di Malta (e come tale partì per un lungo soggiorno nell’isola al centro del Mediterraneo).84 Tutto questo faceva sì che lo studio Fontana ricoprisse un ruolo tentacolare nell’esportazione della cultura artistica e architettonica romana nel più ampio ambito europeo.

License
The text of this article is provided under the terms of the Creative Commons License CC-BY-NC-ND 4.0

1 Per una rilettura del progetto di Bramante sul palazzo dei Tribunali si rimanda ai classici: Arnaldo Bruschi, Bramante architetto, Roma e Bari 1969, 593-608, 946-959; Christoph Luitpold Frommel, „Il palazzo dei Tribunali in via Giulia”, in: Studi Bramanteschi, atti del congresso internazionale (Milano, Urbino, Roma 1970), Roma 1974, 523-534; Manfredo Tafuri, „Roma instaurata: strategie urbane e politiche pontificie nella Roma del primo 500”, in: Raffaello architetto, eds. Christoph Luitpold Frommel, Stefano Ray e Manfredo Tafuri, Milano 1984, 59-106; Arnaldo Bruschi, „Bramante e la funzionalità. Il palazzo dei Tribunali ‘Turres et loca fortissima pro comoditate ed utilitate publica’”, in: Palladio 7, 14 (1994), 145-156; Suzanne B. Butters e Pier Nicola Pagliara, „Il palazzo dei Tribunali, via Giulia e la Giustizia: strategie politiche e urbane di Giulio II”, in: Il Palazzo Falconieri e il palazzo barocco a Roma, atti del convegno (Roma, 24-26 maggio 1995), eds. Gábor Hajnóczi e László Csorba, Soveria Mannelli 2009, 29-279: con bibliografia precedente; e il recente: Pier Nicola Pagliara, „Una fonte a lungo ignorata per un’architettura di Bramante”, in: Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura 60-62 (2013-2014), 73-78 (= Giornate di studio in onore di Arnaldo Bruschi, atti del convegno [Roma, 5-7 maggio 2011], eds. Flavia Cantatore et al., vol. 2, Roma 2014).

2 La regia dell’ingegnoso meccanismo per l’attraversamento del fiume è stata di recente accostata a Leonardo da Vinci (1452–1519) con un ipotesi attributiva da verificare sino in fondo. Cfr. Giuseppe Bonaccorso, „Il ‚ponte dinamico’. I traghetti e l’attraversamento del Tevere a Roma nei secoli XVI-XVIII”, in: I ponti delle capitali d’Europa. Dal Corno d’oro alla Senna, eds. Donatella Calabi e Claudia Conforti, Milano 2002, 88-103; Michelangelo Iadarola, Dai traghetti ai ponti sospesi, Roma 2018, pp. 29-43.

3 Sulle varie fasi architettoniche del palazzo dei Tribunali si veda da ultimo: Butters e Pagliara, „Il palazzo dei Tribunali”, 29-279, con bibliografia precedente.

4 Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architettori…, II, Firenze 1568: Vita di Bramante, 31.

5 Manfredo Tafuri, „Via Giulia: storia di una struttura urbana”, in: Luigi Salerno, Luigi Spezzaferro e Manfredo Tafuri, Via Giulia: una utopia urbanistica del 500, Roma 1975, 65-152, in particolare 76n.

6 Per approfondimenti si veda ancora Butters e Pagliara, „Il palazzo dei Tribunali, via Giulia e la Giustizia”, 156-157.

7 Flavia Cantatore, „Il riuso del palazzo dei Tribunali in Roma nel XVI secolo”, in: Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura” 32 (1998), 69-76, in particolare 70.

8 Christoph Luitpold Frommel, Der römische Palastbau der Hochrenaissance, 3 vols., Tübingen 1973, II, 328, n. 13; Cantatore, „Il riuso del palazzo dei Tribunali”, 76; Butters e Pagliara, „Il palazzo dei Tribunali, via Giulia e la Giustizia”, 156-157.

9 Cantatore, „Il riuso del palazzo dei Tribunali”, 70-71.

10 Cesare d’Onofrio, Il Tevere e Roma, Roma 1970, 170-173; Umberto Gnoli, Topografia e toponomastica di Roma, Roma 1984, 333-334; Bonaccorso, „Il ‚ponte dinamico’”, 89-92, 102.

11 Gnoli, Topografia e toponomastica di Roma, 334; D’Onofrio, Il Tevere e Roma, 170; Tafuri, Via Giulia: storia di una struttura urbana”, 76; Bonaccorso, „Il ‚ponte dinamico’”, 89-92, 102.

12 Tafuri, „Via Giulia: storia di una struttura urbana”, 76, nota 35. E anche Momo [Girolamo Amati], Lettere romane, Roma 1872, 101-102: „Il palazzo incominciato da Giulio II presso San Biagio coll’opera di Bramante […] era restato per la morte di quel pontefice terra a terra, tal quale si scorge tuttavia: salvo un torrione di sopra il fiume, che è adesso entro la chiesa dei Bresciani. La Camera Apostolica ne cedé quella parte che è di verso a Ponte Sisto alla famiglia fiorentina del Nero, o piuttosto a quel Francesco del Nero che volgarmente era chiamato Crà del Piccadiglio, il quale nel 1519 vi murò sopra alcune abitazioni né comode né ornate. All’estremità opposta, vale a dire di fianco San Biagio, trovo fin d’allora i Ruspoli, e alla medesima mano dieci o quindici catapecchie a uscio e tetto di un capitan Luca Martini pur da Firenze.”

13 Cantatore, „Il riuso del palazzo dei Tribunali”, 70.

14 Butters e Pagliara, „Il palazzo dei Tribunali, via Giulia e la Giustizia”, 58, 158.

15 Sulle strategie papali per l’area di via Giulia si vedano le considerazioni di Tafuri, „Via Giulia: storia di una struttura urbana”, 65-152, in particolare 74, 75, 130-132. E in particolare ancora Manfredo Tafuri, „Il palazzo dei Tribunali”, in: Luigi Salerno, Luigi Spezzaferro e Manfredo Tafuri, Via Giulia: una utopia urbanistica del 500, Roma 1975, 314-322, in particolare 316.

16 Butters e Pagliara, „Il palazzo dei Tribunali, via Giulia e la Giustizia”, 157-158, 226-230.

17 Tafuri, „Il palazzo dei Tribunali”, 316.

18 Per raggiungere lo scopo del completamento del palazzo dei Tribunali Sisto V voleva tassare con uno „scudo per testa a tutti quelli che posseggono beni stabili da cento scudi in sú” (Butters e Pagliara, „Il palazzo dei Tribunali, via Giulia e la Giustizia”, 234, fonte 93, 15 marzo 1588).

19 Tafuri, „Via Giulia: storia di una struttura urbana”, 76-77. Sulle ulteriori vicende edilizie dell’area dei Tribunali giuliani, si veda anche: Manfredo Tafuri, „Le ‚Carceri Nuove’ e la casa di correzione per i minorenni”, in: Salerno, Spezzaferro e Tafuri, Via Giulia: una utopia urbanistica del 500, 359-368.

20 Tafuri, „Via Giulia: storia di una struttura urbana”, 77.

21 Momo, Lettere romane, 101.

22 Le misure del campo di gioco dei Banchi erano notevolmente più ridotte rispetto alle misure degli sferisteri realizzati nel XIX secolo, aventi dimensioni di circa 16 per 86 metri. Questi erano costituiti da una superficie piana battuta (e non ammattonata), d’ampie tribune e da un muro che coincideva spesso con le fortificazioni murarie della città.

23 Momo ne dà una descrizione esauriente: „Alla metà dello scoperto, che era tutto mattonato, una corda segnava il fallo; e alle sue estremità s’innalzavano due logge, ove credo avessero a stare i giudici della lizza. Alla destra dell’andito, sei grandi e sformate finestre, alte dal mattonato ventitrè palmi, davano comodità agli spettatori, e potevasi inoltre stare a vedere dai mignali e dalle finestre delle prossime abitazioni” (Momo, Lettere romane, 101-102).

24 Successivamente alla costruzione della chiesa, il gioco del pallone si trasferì sotto le mura del Belvedere Vaticano, „presso il Torrione e l’ingresso degli Svizzeri, e vi stettero fino al 1814” (Momo, Lettere romane, 103).

25 Tafuri, „Via Giulia: storia di una struttura urbana”, 76-77.

26 Tafuri, „Via Giulia: storia di una struttura urbana”, 77.

27 Fioravante Martinelli, Roma ricercata nel suo Sito e nella scola di tutti gli antiquarji, Venezia 1664, 32.

28 Luigi Francesco Fè d’Ostiani, „La chiesa e la confraternita dei Bresciani in Roma”, in: Brixia Sacra 2 (1911), 22-36, 62-71, in particolare 25.

29 Bonaccorso, „Il ‚ponte dinamico’”, 88-103. L’approdo nei pressi di S. Leonardo a Trastevere è descritto da: Pietro Romano, Roma nelle sue strade e nelle sue piazze, Roma 1949, 65.

30 Sui traghetti si veda pure: Giuseppe Bonaccorso, „Le paysage des rives du Tibre à l’époque moderne; Les traghetti et le Tibre du XVI au XIX siècle”, in: Rome 2700 ans d’histoire, eds. Jean-François Coulais e Brigitte Marin, Paris 2003, CD-Rom.

31 Per attraversare il fiume si pagava un pedaggio che permetteva ai del Nero di guadagnare per questo traffico. Una tassa che probabilmente variava negli anni: inizialmente il costo di un passaggio era di mezzo baiocco, successivamente e per molti anni uno. Per una analisi di una possibile connessione tra del Nero e Leonardo per la paternità dei traghetti romani si veda: Bonaccorso, „Il ‚ponte dinamico’”, 88-103. Per una descrizione dei coevi esperimenti leonardeschi sul traghettamento fluviale in Italia settentrionale e in Europa si veda invece: Michelangelo Iadarola, I traghetti e l’attraversamento del Tevere a Roma nei secoli XVIXIX, tesi di dottorato in Ingegneria edile: Architettura e Costruzione, XXVI ciclo, Università di Roma Tor Vergata 2014–15; e il recentissimo: Iadarola, Dai traghetti ai ponti sospesi.

32 Romano, Roma nelle sue strade, 65-66.

33 Christoph Luitpold Frommel, „Il Tevere nel Rinascimento”, in: Le acque e la città (XVXVI secolo), ed. Giuseppe Bonaccorso, Roma 2010, 91-128.

34 Andrea M. Fiorenza, Ricostruzione della facies originaria di Palazzo Altoviti: analisi storica e statica, laurea magistrale in Ingegneria edile-Architettura, Università di Roma Tor Vergata, a.a. 2011–2012.

35 Per un elenco ragionato delle abitazioni che vengono realizzate nel corso del Cinquecento all’interno del perimetro del non finito palazzo dei Tribunali si veda: Cantatore, „Il riuso del palazzo dei Tribunali”, 69-76.

36 Per una storia della confraternita dei bresciani a Roma, cfr.: Fè d’Ostiani, „La chiesa e la confraternita dei Bresciani in Roma”, 22-36, 62-71, 72-79; Oreste Ferdinando Tencajoli, Le chiese nazionali italiane in Roma, Roma 1928.

37 Manfredo Tafuri, „La chiesa di S. Anna o dei Ss. Faustino e Giovita dei Bresciani”, in: Salerno, Spezzaferro e Tafuri, Via Giulia: una utopia urbanistica del 500, 328-332, in particolare 328. Flavia Cantatore pubblica un documento relativo alla concessione da cui si apprende che “la costruzione della chiesa e dell’oratorio avrebbe interessato ‚quoddam edificium turris formam (sic) constructum et compactum’ per il quale ‘melioramenta notabilis valoris tam in elevando quam in cooperiendo’ erano stati fatti dal Guidotti” (Cantatore, “Il riuso del palazzo dei Tribunali”, 72-73).

38 Su Girolamo Franzini, autore della riedizione del 1588 del volumetto Le cose maravigliose dell’alma città di Roma, si veda: Flavia Cantatore, „Una guida illustrata di Roma per il Giubileo del 1588: ‚Le cose maravigliose di Girolamo Franzini’”, in: Le cose maravigliose nell’alma città di Roma nell’edizione di Girolamo Franzini, Venezia 1588, ed. Flavia Cantatore, Roma 2012, V-XIX.

39 Secondo la quasi totalità della bibliografia si ipotizza che l’edificio contenesse quattro tribunali. Butters e Pagliara ne discutono ampiamente convenendo sull’identificazione di tre tribunali: l’Auditore di Camera, del Vicario del Papa e del Governatore (Butters e Pagliara, “Il palazzo dei Tribunali, via Giulia e la Giustizia”, 86-101). A questi si potrebbe aggiungere la Sacra Romana Rota, come individuato da Aloisio Antinori (La magnificenza e l’utile. Progetto urbano e monarchia papale nella Roma del Seicento, Roma 2008, 15-16).

40 Sulle possibili ragioni di realizzare una cappella all’interno di una sede di tribunali si veda: Butters e Pagliara, „Il palazzo dei Tribunali, via Giulia e la giustizia”, 134-138.

41 La mostra dal titolo „Donato Bramante e l’arte della progettazione. Un progetto espositivo basato sulle ricerche di Christof Thoenes” (Vicenza, Palladio Museum, 9 novembre 2014 – 8 febbraio 2015), aveva come focus uno dei disegni più noti della storia dell’architettura: il foglio di lavoro su cui Bramante progetta la nuova Basilica di S. Pietro a Roma (il celebre Uffizi 20 A). La mostra, diretta da Guido Beltramini, traeva origine dagli studi interpretativi dei disegni petriani di Christof Thoenes, con la collaborazione di Alina Aggujaro, autrice delle ricostruzioni. Interessanti anche i modelli interpretativi opera di Ivan Simonato. Una parte non meno interessante dell’esposizione era dedicata alle relazioni tra Palladio e Bramante. Secondo Thoenes, riprendendo le didascalie della mostra: „Bramante parte da spazi preesistenti e sviluppa il progetto da un concetto generale, che specifica progressivamente. Crea maglie ortogonali che ordinano gli spazi, secondo una pratica che potrebbe aver appreso da Filarete e che permette il controllo della composizione a scale differenti. Il procedimento cerca di fare ricorso a numeri interi: un passaggio fondamentale, che supera la costruzione geometrica in uso nell’architettura medievale a favore di modelli aritmetici elementari.” Per una sintesi degli obiettivi programmatici della mostra si veda: Christof Thoenes, „Bramante a Roma: l’arte di progettare. La mostra del 2014–2015 al Palladio Museum di Vicenza”, in: Annali di architettura 26 (2014), 43-58.

42 La griglia modulare è desunta da: Sebastiano Serlio, Il terzo libro di Sebastiano Serlio Bolognese, nel qual si figurano e descrivono le antiquità di Roma & le altre che sono in Italia, e fuori d’Italia, Venezia 1540, XXXVII.

43 Il disegno di Andrea Palladio (riga e stilo, compasso, penna e inchiostro su carta, mm. 443 x 299) mostra lo spaccato ortogonale della chiesa. Vicenza, Pinacoteca Civica, Gabinetto dei disegni e stampe, D. 11 verso.

44 Howard Burns, „I disegni”, in: Mostra del Palladio, cat. della mostra, ed. Renato Cevese, Milano 1973, 131-154.

45 Ancora una volta Palladio sembra disegnare non quanto esiste, ma ciò che egli va cercando nelle architetture che studia: infatti nel progetto per la chiesa del Redentore a Venezia, Palladio sembra riprendere l’ottagono irregolare, le conche absidali (molto modificate però) e i pilastri che sorreggono gli archi principali su cui poggia la cupola della chiesa di S. Biagio. A riguardo si veda ancora quanto evidenziato dalla mostra: „Donato Bramante e l’arte della progettazione. Un progetto espositivo basato sulle ricerche di Christof Thoenes”, Vicenza, Palladio Museum, 9 novembre 2014 – 8 febbraio 2015.

46 Tafuri, „Via Giulia: storia di una struttura urbana”, 77.

47 Sulle vicende delle carceri nuove si veda Tafuri, „Le ‚Carceri Nuove’”, 359-368, e il recente ed esaustivo Antinori, La magnificenza e l’utile, 49-74.

48 Per un inquadramento della presenza fiorentina nel rione Ponte a Roma, si veda almeno: Claudia Conforti, „La ‚Natione Fiorentina’ a Roma nel Rinascimento”, in: La città italiana e i luoghi degli stranieri, XIV–XVIII secolo, eds. Donatella Calabi e Paola Lanaro, Roma-Bari 1998, 171-191.

49 Antonino Bertolotti, Artisti veneti in Roma nei secoli XV, XVI e XVII. Studi e ricerche negli archivi romani, Venezia 1884.

50 Le botteghe di oreficeria erano talmente numerose lungo via del Pellegrino, che la strada da Bertolotti venne paragonata all’area di Ponte Vecchio a Firenze e a quella di Rialto a Venezia (Artisti veneti in Roma nei secoli XV, XVI e XVII, 30-31). Anche gli altri laboratori presenti nell’area utilizzavano il fuoco per la realizzazione dei loro prodotti: orefici, argentieri, orologiai, vetrai, armigeri e indoratori. Tutti i conduttori di queste botteghe erano veneti. In particolare veneziani, vicentini, veronesi, mentre per le armi bresciani, per i coltelli bergamaschi. Si rammenta che Brescia e Bergamo per lungo tempo rimasero sotto il controllo della Serenissima.

51 Sulla presenza dei veneziani a Roma si veda: Giuseppe Bonaccorso, „I veneziani a Roma da Paolo II alla caduta della Serenissima: l’ambasciata, le fabbriche, il quartiere”, in: La città italiana e i luoghi degli stranieri, XIV–XVIII secolo, eds. Donatella Calabi e Paola Lanaro, Roma-Bari 1998, 192-205; Giuseppe Bonaccorso, „La ‚Nation vènitienne’ à Rome entre XVe et XVIIIe siècle”, in: Les étrangers dans la ville. Minorités et espace urbain du bas Moyen Age à l’époque moderne, eds. Jacques Bottin e Donatella Calabi, Paris 1999, 107-119; Chiara Scarpa, „Venezia a Roma: il Palazzo di San Marco”, in: La storia del Palazzo di Venezia, eds. Maria Giulia Barberini, Matilde d’Ossat e Alessandra Schiavon, Roma 2011, 79-116; Fausto Nicolai, „Le vicende abitative nell’Urbe tra dimore private e alloggi temporanei”, in: I cardinali della Serenissima. Arte e committenza tra Venezia e Roma (1523–1605), eds. Caterina Furlan e Patrizia Tosini, Cinisello Balsamo 2015, 389-417; Giuseppe Bonaccorso, „L’Urbe e l’Adriatico orientale: i cittadini e le chiese nell’orbita della Serenissima e della Repubblica di Ragusa/Dubrovnik a Roma nel primo evo moderno”, in: Il Capitale Culturale 7 (2018): special issue Visualizing Past in a Foreign Country: Schiavoni/Illyrian Confraternities and Colleges in Early Modern Italy in Comparative Perspective, eds. Giuseppe Capriotti, Francesca Coltrinari and Jasenka Gudelj, 89-118.

52 Sugli “spaccapietra” impiegati nei cantieri in diverse mansioni legate alla realizzazione degli ornati architettonici, vi è una grande mobilità di presenze nell’Urbe. Alla presenza dalmata, molto forte nella metà del Quattrocento (vicina alla cerchia di Paolo II Barbo) si sostituisce nel Cinquecento quella fiorentina, a sua volta rimpiazzata alla fine del secolo da quella lombarda-ticinese, che assume il monopolio tra Seicento e Settecento nei cantieri romani. Tuttavia permane ancora una piccola presenza dalmata, ora integrata nella città. Nell’ambito degli appartenenti alla Serenissima, bisogna poi ancora menzionare la presenza, nei cantieri barocchi, di un’alta percentuale di falegnami e muratori bergamaschi, che sovente vengono contemporaneamente inclusi sia nell’ambito delle maestranze lombarde sia nell’orbita della Serenissima. Ancora bergamaschi erano pure i lavoratori della seta. Per studi e documenti si rimanda a: Antonino Bertolotti, Artisti lombardi a Roma nei secoli XV, XVI e XVII. Studi e ricerche negli archivi romani, II, Milano 1881.

53 Bertolotti, Artisti veneti in Roma nei secoli XV, XVI e XVII, 11-13, 24-42, 70-80.

54 Per un profilo biografico di Girolamo Franzini, si veda Cantatore, „Una guida illustrata di Roma”, V-XIX. Il nesso tra Franzini e i bresciani è ulteriormente testimoniato dall’incisione contenuta nella sua guida che mostra l’altare dei Ss. Faustino e Giovita (v. di sotto, fig. 11).

55 Fè d’Ostiani, „La chiesa e la confraternita dei bresciani in Roma”, 31.

56 Hellmut Hager, „Le facciate dei SS. Faustino e Giovita e di S. Biagio in Campitelli (S. Rita) a Roma: a proposito di due opere giovanili di Carlo Fontana”, in: Commentari 23 (1972), 261-271.

57 Per una cronistoria della chiesa dei Ss. Faustino e Giovita rimane ancora fondamentale la scheda di Tafuri, „La chiesa di Sant’Anna o dei Ss. Faustino e Giovita dei Bresciani”, in Salerno, Spezzaferro and Tafuri, Via Giulia: una utopia urbanistica del 500, 328-331.

58 Sant’Anna era la protettrice della sezione femminile della confraternita, che contava alla metà del Seicento circa duecento consorelle.

59 Constitutioni overo sia Statuti de la Venerabile Compagnia de’ S.S. Faustino e Iovita di Roma de la Natione Bresciana, Roma 1594.

60 Tale duplice dedicazione è evidente anche nella titolazione della chiesa, quando dopo la prima dedicazione ai Ss. Faustino e Giovita si aggiunge quella di sant’Anna.

61 Per un confronto con le analoghe chiese nazionali, si veda: Identità e rappresentazione. Le chiese nazionali a Roma, 1450–1650, eds. Alexander Koller and Susanne Kubersky, con la collaborazione di Tobias Daniels, Roma 2016, con bibliografia.

62 Cfr. Bertolotti, Artisti veneti in Roma nei secoli XV, XVI e XVII, 85: „Il quartiere del Pellegrino continuò ad avere molti veneti, quali gioellieri, orefici, orologiari ed incisori […] e fecero parte dell’Università degli orefici nell’alma città.”

63 Cfr. Bertolotti, Artisti veneti in Roma nei secoli XV, XVI e XVII, 11-13, 28-39, 71-77, 84-85.

64 Tafuri, „La chiesa di Sant’Anna o dei Ss. Faustino e Giovita dei Bresciani”, 328-331, in particolare 328.

65 Sui rapporti e sugli investimenti dei cardinali veneti nella Roma del Cinquecento si veda il significativo: Mauro Vincenzo Fontana, „‚Qui est titulus meus’. I cardinali veneti a Roma e le loro chiese titolari”, in: I cardinali della Serenissima. Arte e committenza tra Venezia e Roma (15231605), eds. Caterina Furlan e Patrizia Tosini, Cinisello Balsamo 2015, 419-431.

66 La planimetria dell’isolato della chiesa, contenente sia le indicazioni degli immobili da espropriare sia la linea degli sventramenti da attuare per la realizzazione del lungofiume, è conservata nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma, LL. PP., Opere governative ed edilizie per Roma, b. 47, n. 6.

67 Una buona parte dei benefattori bresciani e veneti che contribuirono alla realizzazione della chiesa erano ricordati da memorie e iscrizioni collocate all’interno della chiesa: cfr. Vincenzo Forcella, Iscrizioni delle chiese e d’altri edificii di Roma dal secolo XI fino ai giorni nostri, vol. 7, Roma 1876, 67-76.

68 Fè d’Ostiani, „La chiesa e la confraternita dei bresciani in Roma”, 33-36, 62-65. Alcuni cardinali veneziani, come noto, saranno anche i committenti di lavori e progetti per il palazzo di Venezia e per altri luoghi nell’Urbe. In proposito si veda: Patrizia Tosini, „Impronte veneziane: le committenze artistiche dei cardinali della Serenissima a Roma”, in: I cardinali della Serenissima. Arte e committenza tra Venezia e Roma (1523–1605), eds. Caterina Furlan e Patrizia Tosini, Cinisello Balsamo 2015, 283-328.

69 Archivio di Stato di Roma (d’ora in poi: ASR), Presidenza delle Strade, Lettere Patenti, reg. 46, c. 60.

70 Archivio Storico del Vicariato di Roma, Stati delle Anime, S. Biagio della Pagnotta, 1665, cc. nn. [Isola de Bresciani].

71 Il suo testo per quanto importantissimo per la storia della chiesa e della Compagnia della Nazione bresciana contiene diversi refusi ed errori. Le date di morte dei cardinali sono spesso sbagliate di un anno o due, Girolamo Franzini non viene identificato da un solo personaggio, ma si sovrappone a un altro omonimo non bresciano e, per finire, Bramante è sempre scambiato con Michelangelo [!]. Cfr. Fè d’Ostiani, „La chiesa e la confraternita dei bresciani in Roma”, 24.

72 Una interessante ricostruzione grafica di ciò che oggi rimane delle strutture bramantesche dell’area, esclusa la chiesa scomparsa, viene proposta da: Maria Teresa Iannaccone, „Tracce bramantesche nel sito del Palazzo dei Tribunali di Roma”, in: Palladio 25 (2012), 50, 5-18.

73 Frommel, „Il Tevere nel Rinascimento”, 91-128.

74 Il proposito di riunire in una sola sede gli uffici dei tribunali romani era stato avanzato anche da Alessandro VII Chigi, come ci testimonia lo stesso Fontana nella sua storia del progetto per la Curia Innocenziana: „Sino dal Pontificato di Papa Alessandro VII, ebbi ordine dal medesimo Pontefice, benché io fossi in età giovanile, di trovare il luogo, e disegnare una sontuosa Curia dentro Roma in beneficio del Publico, & a causa de gli sconcerti, delle liti, danni e spese del Publico, si rese impossibile l’effetuazione [sic], come l’istesso caso successe à Papa Giulio II. E Sisto V. […] (Carlo Fontana, Discorso sopra l’Antico Monte Citorio […] Con l’istoria diciò che è occorso nell’inalzamento del nuovo EDIFICIO della CURIA ROMANA, Roma 1708, 15).

75 Le qualità urbane della facciata sviluppata in altezza da Carlo Fontana sono evidenziate anche da: Tafuri, „Via Giulia: storia di una struttura urbana”, 131-132.

76 Cfr. Allan Braham e Hellmut Hager, Carlo Fontana. The Drawings at Windsor Castle, London 1977, 107-109; Lorenzo Finocchi Ghersi, „Carlo Fontana e i Grimani. Il palazzo di Roma e un progetto di villa in Veneto”, in: Arte Veneta 48 (1996), 117-127; Lorenzo Finocchi Ghersi, „Carlo Fontana e Palladio: il progetto per un ‚casino in Venetia’”, in: Carlo Fontana 1638–1714. Celebrato architetto, atti del convegno internazionale (Roma, 22-24 ottobre 2014), eds. Giuseppe Bonaccorso e Francesco Moschini, Roma 2017, 251-255.

77 Lorenzo Finocchi Ghersi, „Carlo Fontana e i Grimani. Il palazzo di Roma e un progetto di villa in Veneto”, in: Arte Veneta 48 (1996), 117-127.

78 Si veda da ultimo: Fulvio Lenzo, „Venezia”, in: Storia dell’architettura nel Veneto. Il Settecento, ed. Elisabeth Kieven e Susanna Pasquali, Venezia 2012, 134-165, in particolare 151, 164.

79 Sul viaggio in questione chi scrive sta curando uno studio di prossima pubblicazione già anticipato in una sessione del convegno annuale della RSA (The Renaissance Society of America) del 2016 a Boston.

80 Andrea Bonavita e Sergio Monferrini, „‚Huomo abbondante di parole’ all’ ‚acquisto … di tanti padroni’. Il viaggio diCarlo Fontana in Lombardia”, in: Carlo Fontana 1638–1714. Celebrato architetto, atti del convegno internazionale (Roma, 22-24 ottobre 2014), ed. Giuseppe Bonaccorso e Francesco Moschini, Roma 2017, 256-266.

81 Sullo studio Fontana si veda almeno Hellmut Hager, „Carlo Fontana. Pupil, Partner, Principal, Preceptor”, in: The Artist’s Workshop, atti del convegno (Washington, DC, 10-11 marzo 1989), ed. Peter M. Lukehart, Hanover 1993 (= Studies in the History of Art, ed. National Gallery of Art, Washington, DC, 38), 123-155; Giuseppe Bonaccorso, „I luoghi dell’architettura: lo studio professionale di Carlo Fontana alla colonna Traiana”, in: Roma, la casa, la città, ed. Elisa Debenedetti, Roma 1998 (= Studi sul Settecento Romano, 14), 95-125. Sulle principali committenze di Fontana si veda da ultimo la scheda biografica di Saverio Sturm, „Carlo Fontana”, in: Studi sui Fontana. Una dinastia di architetti ticinesi a Roma tra Manierismo e Barocco, eds. Marcello Fagiolo e Giuseppe Bonaccorso, Roma 2009, 432-438.

82 Cfr. Cristina Ruggero, „Disegni di memorie funebri per Carlo e Francesco Fontana eseguiti da Filippo Juvarra ‚amatissimo discepolo’”, in: Studi sui Fontana, eds. Marcello Fagiolo e Giuseppe Bonaccorso, Roma 2009, 385-398, in particolare 398, e anche: William Eisler, „Carlo Fontana and the maestranze of the Mendrisiotto in Rome”, in: Studi sui Fontana, eds. Marcello Fagiolo e Giuseppe Bonaccorso, Roma 2009, 355-384, in particolare 378.

83 John Abel Pinto, Nicola Michetti (circa 1675–1758) and Eighteenth-Century Architecture in Rome and Saint Petersburg, Ph.D. thesis, Harvard University 1976.

84 Per un’analisi delle vicende che portarono Carapecchia a ricoprire il ruolo di architetto dei cavalieri dell’Ordine di Malta si veda: Giuseppe Bonaccorso, „Carlo Fontana, Romano Fortunato Carapecchia e il villino Vaini sul Gianicolo a Roma: il progetto, la controversa edificazione e il condono”, in: La festa delle arti. Scritti in onore di Marcello Fagiolo per cinquant’anni di studi, eds. Mario Bevilacqua, Vincenzo Cazzato e Sebastiano Roberto, Roma 2014, 524-531.